Riprendere in mano ‘La morte di Ivan Il’ič’, magnifico Tolstoj, quando la vita ti ha fatto attraversare l’esperienza della morte ed ha sconfitto qualunque tentativo di teoria: ed è così che riesci a capire fino in fondo la recita che si compie intorno al suo morire
Non so quante descrizioni di morte avessi letto allora, quante ne avrei letto in seguito, quella di Ivan Il’ič era l’ennesima e poi, diciamolo, per niente eroica.
Trovai fulminante il racconto di Tolstoj. Ero poco più che adolescente, tanti anni fa e fu merito di Leonardo Sciascia, che amavo molto, se corsi ad acquistare il libro e a berlo di un fiato.
La morte del protagonista è anticipata all’inizio, con un convenzionale annuncio sulla Gazzetta, da parte di Praskov’ja Fedorovna Golovina, la moglie che, affranta, ‘partecipa a familiari e conoscenti il decesso del suo adorato coniuge’.
Ivan Il’ič Golovin, secondogenito di tre figli di un funzionario ministeriale, era considerato l’orgoglio di famiglia: ‘intelligente, vivace, piacevole e decoroso‘. La sua vita, cominciata con queste credenziali, con buoni studi all’Istituto di giurisprudenza, era proseguita con una bella carriera, dapprima in provincia, poi a Mosca, con un incarico prestigioso nei gradi più alti della magistratura, uno stipendio soddisfacente, una bella moglie, pur con qualche screzio, due figli e una splendida casa.
Proprio mentre personalmente arredava il vasto appartamento appena acquistato, salendo su una scaletta per mostrare al tappezziere come avrebbe dovuto realizzare il drappeggio di una tenda, mette un piede in fallo e scivola senza cadere, ma battendo col fianco la maniglia della finestra. Il colpo l’aveva sentito, ma di lì a poco gli era passato. Gli attriti con la moglie erano si erano placati, nelle sua bella casa transitava la miglior società cittadina, il lavoro lo gratificava e alcuni giovani appartenenti a famiglie cospicue cominciavano a corteggiare la figlia, tra cui il rampollo del giudice istruttore, unico erede di un’ingente fortuna.
Il tempo scorreva e tutto andava per il meglio, tranne il cambiamento di umore di Ivan Il’ic dovuto a quel fastidio persistente al fianco destro.
Comincia da qui l’andirivieni del protagonista presso medici diversi dai quali vorrebbe una sola risposta, se si tratta cioè di male grave o no, ma la risposta non arriva. Il dolore aumenta, la famiglia è distratta, il magistrato va perdendo il controllo del suo ragionare, si chiude in se stesso, si dispera, dialoga con la morte, considera la propria vita: ‘se almeno arrivasse presto!’ ‘no, no. Tutto è meglio della morte!’
Riprendo in mano e rileggo, mente e cuore dentro al tema. E rilevo le mie tante “distrazioni” di allora, che in realtà distrazioni non erano, semplicemente esercitazioni letterarie sul concetto di morte. Poi si cresce, si legge in altro modo, si approfondisce, si vive e soprattutto si vede morire. E allora cambia tutto.
La morte non è più un concetto o una morsa di emozione transitoria o tutte e due le cose.
La morte è la morte e ti strappa con violenza ad ogni tentativo di teoria. Tolstoj fa esattamente questo e non si tratta solo di realismo (russo), ti inchioda , ti prende per mano e ti accompagna alla diretta, accanto al letto del protagonista.
Quando Ivan si ripete il sillogismo ‘Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale, gli era sembrato per tutta la vita, valido solo in rapporto a Caio’, parla di una realtà ineluttabile e le ultime ore della sua vita affondano letteralmente nell’angoscia, ma anche nell’odio per tutti coloro che gli stanno attorno , che sono in salute e di cui coglie l’ipocrisia. E ripassa la sua vita che non gli piace e che gli appare come una menzogna, ‘un inganno che ti ha nascosto la vita e la morte’. E intanto sprofonda in un buco nero, sempre più giù, giù, fino a che, proprio nell’attimo che non dà scampo, vede la luce. ‘Che meraviglia!’ È finita la morte.
Solo ora comprendo che quell’incipit prolettico con il necrologio di Praskov’ja Fedorovna Golovina altro non è che un’apertura di scena su una recita ingannevole in cui tutti gli attori, familiari e amici, intimi e meno intimi aprono le danze sul simulacro dell’esistenza: dai colleghi ‘che gli volevano bene’, i quali, appena avuta la notizia, cercano di riempire la casella vuota con qualche promozione o trasferimento a proprio vantaggio, alla vedova inconsolabile che con le lacrime agli occhi interroga il miglior amico del defunto sul modo migliore per ottenere una somma aggiuntiva dall’erario oltre il dovuto; a quest’ultimo, il migliore amico s’intende, che calcola bene il tempo per partecipare al rito serale della partita a carte col gruppo ristretto di sempre.
E comprendo come l’epifania di quel bagliore finale che illumina il buco nero di Ivan Il’ič ponga fine al conformismo dell’apparire, mortale scandalo della vita, presente dalla prima all’ultima pagina ‘È finita la morte, non c’è più ‘, sono le ultime sue parole. Finalmente.
Era profetica quella massima latina scritta sulla medaglia che aveva voluto appendersi alla catena all’indomani della licenza dall’Istituto di giurisprudenza e che recitava “Respice finem“?
Immagine di copertina di Luke Palmer