Tanta buona musica anche questa settimana. Di tutti i generi e latitudini. Dall’interessante piano jazz di Gregory Privat, allo Chopin del giovane astro dello strumento Seong-Jin Cho. Dalle canzoni postume dell’eclettico e mai abbastanza lodato Giorgio Faletti ai ritmi esotici di Noura Mint Seymali (Mauritania). E poi i Foxygen, i Mandolin Orange, J-Ax/Fedez. Il resto scopritelo voi
Massaroni Pianoforti – La notte di san Silvestro/ Non mi basto più/ Uguale a me
Gianluca Massaroni aka Massaroni Pianoforti, come il negozio di famiglia a Voghera. Cantautore sghembo all’opera seconda dopo il bene accolto Non date il salame ai corvi del 2014. Giù (****) è finora la più convincente prova d’autore degli ultimi mesi. Testi spigolosi e non scontati, filastrocche di piccola amarezza e agrodolce disincanto. E musiche di scabra bellezza, sospese tra pop anni ’70 (Piero Ciampi e il primo Fossati, il Cocciante degli inizi e Ivan Graziani, affettuosamente sbertucciato in Palestra) ed elettronica discreta e lo-fi. Da tenere d’occhio.
Dimartino/ Fabrizio Cammarata – Non tornerò/ Le cose semplici/ Croce di addio/ La llorona
Negli ultimi anni, quando si esibiva all’Olympia e al Carnegie Hall ed era la musa di Pedro Almodóvar, la chiamavano “la signora dal poncho rosso”. Prima Chavela Vargas (1919-2012) non era ancora la Edith Piaf del Messico. E faceva scandalo con la sua dichiarata omosessualità, i suoi amori esibiti (uno, celebre, fu Frida Kahlo), i vestiti da uomo che indossava, la pistola che portava sempre con sé e i fiumi di tequila che beveva. Sulle tracce della sua vita tumultuosa e delle sue canzoni dolenti e appassionate sono andati due giovani cantautori palermitani, Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata. Ne hanno ricavato un romanzo (per La Nave di Teseo) e un disco di bruciante bellezza (****1/2) che hanno lo stesso titolo, Un mondo raro. Li accompagnano due chitarristi messicani, Juan Carlos Allende e Miguel Peña, che furono a fianco di Chavela. Quanto a lei, Chavela, per farvene un’idea potete ascoltarla, qui sotto c’è il link a YouTube, in uno dei suoi brani più celebri, La llorona.
Gregory Privat – Le bonheur/ Riddim/ Happy invasion
Il pianoforte jazz è uno dei miei molti amori (in musica come in altro sono curioso di tutto). E l’ultimo pianista che mi ha conquistato è il poco più che trentenne martinicano Grégory Privat, figlio d’arte (suo padre José, anche lui pianista, è stato il leader della band antillana Malavoi) e pianista in carica di Lars Danielsson. In Family tree (****) esordisce come leader con due partner capaci ed empatici (Linley Marthe al basso e Tilo Berholo alla batteria). Privat ha studiato pianoforte classico e si sente, eccome: per la lievità elegante dell’esecuzione, per l’eloquenza lirica delle composizioni. Lo aggiungo alla lunga lista dei miei pianisti.
Seong-Jin Cho esegue Chopin
Da Oriente sono arrivati, negli ultimi anni, molti giovani dotatissimi esecutori di classica. Per restare ai pianisti, non c’è soltanto il frenetico e un po’ fumettistico Lang Lang, ma anche (ne ho parlato nei mesi scorsi) la brava e bella Yuja Wang. E ora arriva il sensazionale ventunenne coreano Seung-Jin Cho, trionfatore all’ultimo concorso Chopin. La sua interpretazione smagliante del Concerto per pianoforte e orchestra op. 11 e di quattro Ballate di Chopin (op. 23, 38, 47 e 52) è, al tempo stesso, un perfetto compendio degli stili esecutivi classici. Antitetico per i critici rispetto allo Chopin di Pollini, Seung-Jiin Cho richiamerebbe piuttosto Benedetti Michelangeli. In questa incisione per la Deutsche Grammophon (****), lo supporta splendidamente la London Symphony Orchestra diretta da Gianandrea Noseda.
Bert Jansch – The rocky road to Dublin/ Morning brings peace of mind/ She moved through the fair
Scozzese di Glasgow, Bert Jansch (1943-2011) ha praticato dal 1965 fino alla scomparsa un folk intriso di psichedelia e blues, come a togliere gli eccessi zuccherini alla tradizione, e di quel folk rock è stato uno degli eroi come solista, in coppia con l’amico John Renbourn e nella formazione dei Pentangle. Chitarrista di prima grandezza (ha influenzato fra gli altri Jimmy Page dei Led Zeppelin, Johnny Marr degli Smiths e Neil Young), con almeno un paio di album sublimi (uno su tutti, Jack Orion del 1966, *****), da circa un anno viene riscoperto e ristampato, con la produzione dei ’90, dall’etichetta londinese Earth Recordings. Living in the shadows (****) è un cofanetto quadruplo che raccoglie tre album di quegli anni, The ornament tree, When the circus come to town e Toy balloon, e un quarto album di registrazioni casalinghe di ottima qualità sonora, Picking up the leaves.
Jordi Savall dirige Rebel, Locke e Vivaldi
Temporali, burrasche e feste marine, ovvero musica barocca per il mare in tempesta. Ovvero Les elements (****1/2), album doppio del gambista violoncellista e direttore catalano Jordi Savall, stavolta alla guida dell’ensemble barocco Concert des Nations, fondato nel 1989 assieme a esecutori come Tom Koopman, Andrew Lawrence-King e Fabio Biondi. Pagine di grande suggestione sul mare mosso e molto mosso hanno scritto i francesi (Jean-Féry Rebel, Marin Marais e Jean-Philippe Rameau), gli inglesi (Matthew Locke, il frammento che propongo è tratto dalle musiche di scena, composte nel 1674, per La tempesta di Shakespeare), i tedeschi (Georg Philipp Telemann) e il nostro Antonio Vivaldi, il cui Concerto per flauto RV 433 ha per sottotitolo “La tempesta in mare”. Esecuzione superba.
Foxygen – Avalon/ Mrs. Adams/ On Lankershim
Che disgrazia il glam come pulsione epidermica, il retrofuturismo che vuole fare il verso a Roxy Music, Lou Reed e David Bowie, aggiungendoci un’orchestra e qualche aroma vaudeville. Fa così il duo californiano Foxygen in Hang (***). Piacevole ma di tenue consistenza, gazzosa e non champagne.
Noura Mint Seymali – Arbina/ Na sane
In vita mia ho ascoltato ore e ore di musica senegalese e maliana, i due stati confinanti con la Mauritania. Anche del Marocco, altro confinante, conosco qualcosa. Mancava proprio la Mauritania. E con Noura Mint Seymali, cantante ipnotica e suonatrice di ardine, uno strumento a nove corde, la prima impressione è di deliziato ascolto. Gran disco questo Arbina (****1/2), che combina musica etnica e blues, retaggio arabo-africano e psichedelia, con un’energia e una perfezione sonora non frequenti. Guida il gruppo il marito della cantante alla chitarra elettrica, le canzoni invitano la popolazione alla prevenzione sanitaria (Arbina), a seguire i sogni e ad abbandonarsi al potere della musica.
Flo Morrissey & Matthew E. White – Grease/ Suzanne/ Sunday morning
Un album di cover? Sì, un album di cover. Un album che promette di essere uno dei migliori di questo 2017? Sì, proprio così. Gli album di cover sono una brutta bestia: spesso pallide copie degli originali, spesso progetti laterali, il più delle volte prodotti color nostalgia. Gentlewoman, ruby man (****1/2) non è niente di tutto questo. Suona come un disco originale: compatto nella resa strumentale, perfetto nel gioco delle voci. Lei, Flo Morrissey, è una ventunenne londinese con un solo album alle spalle. Lui, Matthew E. White, un cantautore americano molto stimato e molto di nicchia. Si incontrano al Barbican per un omaggio a due voci a Lee Hazlewood (ricordate? Era quello che scriveva le canzoni di Nancy Sinatra), del quale eseguono Some velvet morning (ricordate? Nei tardi ’60 lo facevano i Vanilla Fudge). Qualcosa della “cowboy psychedelia” di Hazlewood dev’essere rimasto appiccicato ai due, in questo album. E anche, dicono loro, qualcosa dei duetti da unorthodox soul, tipo Marvin Gaye & Tammi Terrell. È un fatto comunque che Flo & Matt si appropriano di classici e gemme dimenticate e le fanno loro. Vale per la resa clamorosa di Grease, canzoncina dei Bee Gees a cui non si darebbe un soldo, di Sunday morning dei Velvet Underground e della Suzanne di Leonard Cohen trasformata in una dark song. Ma vale anche per Frank Ocean, James Blake, George Harrison e, sorpresa sorpresa, per Nino Ferrer. Da anni non ascoltavo un album di cover di questa qualità.
Giorgio Faletti – Uomo di carattere/ Va tutto bene/ Il tappeto rosso
Canzoni postume, canzoni in gran parte inedite (ma ci sono anche la fortunatissima Signor tenente e The show must go on, scritta per la partecipazione di Milva a Sanremo 2007). Anche dopo che tutto si è spento (***1/2) è, più che una sorpresa, una conferma del talento eclettico di Giorgio Faletti, comico, pilota, attore, autore di thriller dalle vendite milionarie. E qui cantautore non banale e intimo.
Liede – Finte intellettuali/ Corsica/ Una fine diversa
Liede, né lied né leader, è il nome d’arte di Francesco Roccati, 27 anni, torinese. Assecondato da Vladimiro Orengo figlio del grande Nico, manda in cortocircuito synth pop anni ’80 e songwriting d’autore per estrarne canzoni blandamente ammaccate e fintociniche, tra crepuscolare e tardoadolescenziale. Stare bravi (***1/2) è il rifiuto o l’incapacità di prendere il posto giusto in società. Fra Torino e il Ponente ligure, intrigante.
A Tribe Called Quest – We the people…/ Solid wall of sound/’Dis generation
A volte ritornano. E, molto più di rado, ritornano in stato di grazia. Accade al più grande dei gruppi hip-hop, A Tribe Called Quest, con la reunion We got it from here… Thank you 4 your service (****) dopo diciotto anni di silenzio discografico. E loro, che avevano introdotto il jazz e il soul nei codici del rap, volano in cima alle classifiche americane con storie affilate ma senza enfasi trucide o melò, una gran classe e stratificazioni sonore (si ascolti la bellissima Solid wall of sound, che ha inserti vocali di Busta Rhymes, pianistici di Elton John e chitarristici di Jack White) che vengono dal passato e suonano futuribili.
Melissa Etheridge – Hold on, I’m comin’/ I’ve been lovin’ you too long/ Born under a bad sign
Rocker girl sulla scena dai tardi anni ’80, due Grammy e una militanza appassionata per i diritti degli omosessuali, Melissa Etheridge con Memphis rock and soul (***) si cimenta, assecondata da turnisti delle versioni originali e, in qualche traccia, da John Mayer che incrocia la chitarra solista con lei, con dodici classici dei roventi sixties. Canzoni di Sam & Dave, Otis Redding e William Bell come quelle che ho scelto, ma sono del mazzo anche Rufus Thomas, gli Staples Singers, B. B. King, Lowell Fulson e Booker T. Jones. Esecuzione grintosa e corretta, ma senza guizzi.
Mandolin Orange – Hey, stranger/ Take this heart of gold
Gonnelloni lunghi e camicie a scacchi da taglialegna, chitarre acustiche e mandolini e banjo e violini. Grandi armonie vocali, un folk acustico intimo che si tinge di bluegrass. Loro sono Emily Frantz e Andrew Marlin ovvero i Mandolin Orange da Chapel Hill nel North Carolina. Con Blindfaller (***1/2), quinto album e secondo inciso per la YepRoc, si confermano realtà tra le più belle e amate della scena indie folk. Tutta farina del loro sacco, ma ascoltateli su YouTube anche nella versione suggestiva della dylaniana Boots of Spanish leather.
J-Ax/Fedez – Comunisti col rolex/ Tutto il mondo è periferia/ Piccole cose
Sfrontati, sboccati, tatuati, a me J/Ax e Fedez stanno simpatici. J/Ax, a dire il vero, mi piaceva già da quando era negli Articolo 31. Il rap-pop del loro Comunisti col rolex (***1/2) è divertente, esibizionista, interessante, al netto delle provocazioni per farsi notare (ma lo faceva anche Aldo Busi). Dà voce a una voglia di riscatto un po’ sfacciata, ma non livida e non rancorosa. E la tanto vituperata Comunisti col rolex dice in fondo una cosa persino banale: che chi ha successo con mezzi onesti non se ne deve vergognare.