Dal rock alla contemporanea, dal jazz alla classica, dal rap al blues le buone note della settimana secondo Cultweek
Depeche Mode – Going backwards/ Where’s the revolution/ So much love
«Ti hanno tenuto sotto, ti hanno maltrattato, ti hanno mentito e ingozzato di verità, chi decide per te? Tu o la tua religione, il tuo governo, i tuoi paesi? Ehi tu, drogato di patriottismo, dov’è la rivoluzione?». Prima ancora che Trump si insediasse alla Casa Bianca, i Depeche Mode avevano già annusato l’aria che tirava. Non c’era bisogno di rimandare l’uscita del disco per rinfrescarlo, come hanno fatto gli U2 con Songs of experience. Perché Spirit (****), che aggiorna il loro inconfondibile mix di rock ed elettronica, è un disco immediato (tra i loro più accessibili a un primo ascolto) e nervoso. Che punta il dito contro i poteri forti (le corporation di Poorman) ma anche contro la massa dei governati: abbiamo la tecnologia ma in fondo siamo rimasti dei cavernicoli, dice in buona sostanza la secca e bluesy Going backwards. Grande ritorno, presto anche in tour: in Italia saranno il 25 giugno a Roma, il 27 a Milano e il 29 a Bologna.
Fast Animals and Slow Kids – Asteroide/ Fiumi di corpi/ Montana
I Fast Animals and Slow Kids (Fask) guidati dal frontman Aimone Romizi vengono da Perugia e hanno dieci anni di esperienza e tre album alle spalle. Si sente, perché Forse non è la felicità (***1/2) è un album maturo che rinuncia al “primal scream” e incanala la rabbia. Le tracce punk (Giorni di gloria) convivono con l’hardcore (Fiumi di corpi, Capire un errore, il singolo Annabelle) e con potenti ballate rock (Asteroide, soprattutto Montana). Grintosi.
Michel Camilo e Tomatito – Our Spanish love song/ Gnossiennes no. 1/ Nuages
Suonano assieme, nelle parentesi che si ritagliano tra mille impegni individuali, da quasi vent’anni. Il loro primo album in duo, Spain, nel 2000 ottenne un Grammy come “best jazz Latin album” e ora, con Spain forever (****), siamo al terzo episodio. Loro sono il pianista dominicano Michel Camilo, classe 1954, già al fianco di Tito Puente e Pasquito D’Rivera, e il chitarrista flamenco José Fernandez Torres in arte Tomatito, classe 1958, che per circa vent’anni ha accompagnato il più grande cantante flamenco di sempre, Camaron de la Isla. Spagna (Agua e vinho, Our Spanish love song che peraltro è di Charlie Haden) e molto altro, nelle dieci tracce di questo lavoro. La Gnossienne no.1 di Erik Satie, forse la prova più felice di tutte, Nuages di Django Reinhardt, Manha de Carnaval di Luiz Bonfa, il Morricone di Nuovo Cinema Paradiso, il Chick Corea di Armando’s rhumba. Di suprema eleganza.
Daniel Barenboim esegue Scarlatti, Beethoven e Wagner e dirige Boulez
“Schizofrenico sano”, si definisce Daniel Barenboim, nato a Buenos Aires nel 1942 da una famiglia ebrea russa. Cioè appassionatamente diviso fra il magistero dell’interprete (come pianista esordisce a sette anni, nel 1949) e quello del direttore d’orchestra. I due ultimi album pubblicati dalla Deutsche Grammophon danno conto di tutti e due gli aspetti della sua personalità. On my new piano (****) è il resoconto di una passione repentina e di un’avventura. Tutto comincia nel 2011 quando, a Siena, Barenboim ha modo di suonare con un pianoforte appartenuto a Franz Liszt, innamorandosene. Il piano di Liszt ha una particolarità: è a corde dritte e non incrociate, come è d’uso nei grand piano da concerto fin dal primo Steinway di fine ‘800. Ha perciò forse una minore omogeneità, ma una maggiore trasparenza e un suono più chiaro. Così, Barenboim chiede alla Steinway di costruirgli un nuovo piano e viene indirizzato dal belga Chris Maene, che in diciotto mesi e 4000 ore di lavoro realizza per lui il Barenboim-Maene del quale oggi esistono soltanto due esemplari. Questo album mette alla prova il nuovo strumento con Domenico Scarlatti (affascinante la Kk 159, forse ancor più la Kk9), Beethoven (le 32 variazioni WoO 80, belle soprattutto la 1 e la 9), Chopin (secondo me non troppo congeniale a Barenboim), Wagner (la Marcia del Parsifal) e Liszt. Bell’esperimento, ma il meglio arriva con il doppio Hommàge a Boulez (****1/2), uscito all’inizio del mese mentre veniva inaugurata, alla Barenboim-Said Akademie di Berlino, la sala da concerto firmata da Frank Gehry e dedicata all’alfiere francese del modernismo scomparso nel 2016. Barenboim dirige con bella veemenza, quasi con furore, la lunga Derive 2, cinquanta minuti, con i giovani israeliani, palestinesi ed europei della West Eastern Divan Orchestra che fondò nel 1999 con il grande intellettuale palestinese Edward Said. Boulez stesso dirige la bellissima e ascetica Le marteau sans maitre, con la contralto Hilary Summers in bella evidenza. In Anthèmes 2 spicca invece il violinista Michael Barenboim, figlio del nostro, e nell’affascinante Messagiquisse per violoncello solista e sei violoncelli si mette in luce il cellista palestinese Hassan Moataz El Molla. Non c’è due senza tre: interprete e direttore si incontrano nel sontuoso cofanetto della Warner, 35 cd, Beethoven Barenboim (*****) che rinnova l’incanto. Dovendo scegliere, ma la scelta è ardua, scelgo le Variazioni Diabelli, le Sonate con violoncello (a fianco di Barenboim c’è la prima moglie Jacqueline du Pré) e, soprattutto, i Concerti per pianoforte.
Mississippi Fred McDowell – You got to move/ Louise/ Baby please don’t go
Un prezioso concerto del novembre 1971 al Gaslight Cafe del Greenwich Village, questo Shake ‘em on down: Live in Nyc (****). Lui è “Mississippi” Fred McDowell, 1904-1972, contadino (e bluesman per gli amici, da dilettante) per tutta la vita, primo album inciso nel 1959 a 55 anni. Una scoperta, più che una riscoperta, per il blues revival dei ’60-’70. Stile scabro e tagliente, percussivo, basato su un accordo o poco più e sull’interazione tra voce e chitarra. Uno stile alieno al rock (e lui lo ribadisce ossessivamente, in concerto e su disco: «Questo è blues, non è rock ‘n’ roll»), che al rock piace tantissimo: i Rolling Stones, per dirne una, inseriscono la sua You gotta move in uno dei loro album più belli, Sticky fingers. Nel concerto al Gaslight, Mississippi Fred passa in rassegna brani suoi (Fred’s worried blues) e altrui, da Baby please don’t go a Jesus on the mainline (qualche anno dopo l’avrebbe riproposta anche Ry Cooder), da Good morning little school girl addirittura a When the saints go marchin’ in. Avviso agli appassionati di blues: su YouTube il concerto al Gaslight c’è per intero.
NRBQ – Party in my head/Rc Cola and a moon pie/ Sweet and petite
Clamorosamente divertenti, gli NRBQ (l’acronimo sta per New Rhythm & Blues Quartet) di Terry Adams sono una delle band meno esportate del rock americano. Nati nel 1967 a New York dopo un incontro di Adams con Sun Ra (che definisce il giovane tastierista “consulente musicale del Creatore” e gli affida la sua musica spaziale da divulgare presso le platee rock), apprezzati da colleghi come Bob Dylan, Keith Richards ed Elvis Costello, oltre che da Carl Perkins e John Sebastian che accompagnano in concerto, gli NRBQ festeggiano i cinquant’anni di attività con un lussuoso cofanetto di cinque cd, High noon (****), di cui Spotify offre soltanto un piccolo assaggio sotto forma di rarities e b-sides (cerco di rimediare con il link YouTube al loro successo maggiore, Get that gasoline blues, inciso nel bel mezzo della crisi petrolifera del 1974). Anche così, però, è possibile farsi un’idea del loro “omni-pop” che, partendo da un’ attitudine grezza e “garage”, fagocita e incorpora tutti, ma proprio tutti, gli stili americani, dai più futili (la bubblegum music, per dirne una) ai più alti (il jazz), filtrandoli con un approccio irriverente e freak alla Frank Zappa.
Flaco Jimenez – He’ll have to go/ Marina/ Wooly bully
Musica spudoratamente caciarona, non raffinata, trascinante, quella di Leonardo “Flaco” Jimenez, classe 1939, fisarmonicista principe di quel genere ibrido conosciuto come tex-mex, la musica più terrona possibile per gli americani, la più nordista per i messicani. Stile conjunto (fisarmonica più sax più chitarre), un lungo sodalizio con Ry Cooder, un supergruppo (The Texas Tornados) e una fruttuosa attività di sessionman (ha suonato nei dischi di Rolling Stones, Clash, Dylan e decine d’altri), Flaco nel doppio Fiesta (***1/2) è catturato durante un concerto del 2001 a Brema, in Germania. Non mancano i classici e i lenti (He’ll have to go, dal repertorio di Cooder), ma ho scelto di fare spazio a una hit italiana degli anni ’50, Marina di Rocco Granata, e alla trascinante e truzza Wooly bully di Sam the Sham & The Pharahos, che nei ’60 del secolo scorso fece capolino anche nelle nostre classifiche.
Francesco Piu – In the cage of your love/ Black woman/ Give prace a chance
Sassarese, 36 anni, un passaggio anche nella band di Davide Van De Sfroos, Francesco Piu è emerso nell’ultimo decennio come uno dei più seguiti bluesmen italiani, apprezzato anche negli Stati Uniti (uno dei suoi album, finora ne ha fatti cinque, è stato prodotto da Eric Bibb). Un blues per niente ortodosso il suo, e anzi pronto alle contaminazioni rock, gospel, funky, soul, New Orleans (sentite come rilegge Give peace a chance di John Lennon), in una miscela grezza e potente. Nel suo quinto lavoro, Peace and groove (***1/2), i testi inglesi delle sue canzoni sono stati scritti dal romanziere Salvatore Niffoi.
Paolo Fresu & Uri Caine – I loves you Porgy/ All I want-Give peace a chance/ La travagliata
Non saprei che cosa scegliere da Two minuettos (****), disco assai vicino alla perfezione in cui il trombettista sardo Paolo Fresu e il pianista americano Uri Caine fanno risplendere la loro quieta e lirica arte dell’improvvisazione sorretta da un gusto sicuro per la melodia. Terzo frutto del loro sodalizio, l’album riassume tre serate magiche al Teatro dell’Elfo di Milano. Cover, soltanto cover, neppure un brano originale: due minuetti di Bach ad aprire e chiudere, il terzo movimento della Sinfonia n. 1 di Mahler, arie barocche della compositrice e soprano Barbara Strozzi. E poi Mia Martini (Almeno tu nell’universo), Nat King Cole (Nature boy), un’ardimentosa abbinata fra Joni Mitchell e John Lennon affrontata dal solo Caine (All I want/Give peace a chance) e un’introspettiva I loves you Porgy di Gershwin. Ci sarebbe anche Caruso di Lucio Dalla ma Spotify non la fornisce. Applausi.
Gianmaria Testa – Un aeroplano a vela/ Nella tasca di un qualunque mattino/ Seminatori di grano/ Al mercato di Porta Palazzo
Torna Gianmaria Testa (*****), il capostazione poeta che in Francia scoprirono prima di noi negli anni ’90 e che nel 1995 arrivò a esibirsi all’Olympia e noi a chiederci chi fosse e poi, qualche anno dopo, anche noi a dire che bravi i francesi ad averlo scoperto. Piemontese di Cavallermaggiore in quel di Cuneo, nato nel 1958, cantautore pudico e intenso, poco avvezzo agli effetti speciali e ai grandi ensemble e spesso incline a esibirsi da solo con una chitarra (ma con lui hanno suonato Paolo Fresu e Bill Frisell e tanti altri grandi), Testa se ne è andato un anno fa. E ora ritorna in edizione integrale con tutta la sua produzione in due cofanetti: i sette album incisi in studio, da Montgolfieres del 1994 a Vitamia del 2011, poco prima c’è lo straordinario Da questa parte del mare dedicato ai migranti, e i quattro album dal vivo. Un’occasione d’oro, se ancora non lo conoscete o lo conoscete male, per scoprirlo e innamorarvene.
Dwight Yoakam – Guitars, Cadillacs/ Gone (That’ll be me)/ Purple rain
Quando apparve all’inizio degli anni ’80, il kentuckiano Dwight Yoakam, che in seguito avrebbe avuto anche una discreta carriera di attore, era un modernista del country, che mescidava con il rockabilly e con il primo Elvis Presley. Genere “urban cowboy” il suo o, come anche si disse, “cow punk”. In trenta e passa anni di carriera non gli è andata male: 25 milioni di dischi venduti, una trentina di singoli approdati nella classifica certificata da Billboard. Con Swimming pools, movie stars… (***1/2) Yoakam rilegge la sua produzione in chiave acustica e bluegrass, con grande spolvero di violini, chitarre, mandolini e banjo. E, a sorpresa, trasforma un classico di Prince in odore di psichedelia, Purple rain, in una canzone strappacore buona per i vecchi honky tonk.
Pharrell Williams – Runnin’/ I see a victory
Avete presente Il diritto di contare, il film diretto da Theodore Melfi sulle tre scienziate afro-americane che nei primi anni ’60, sfidando la discriminazione razziale, diedero un contributo importante alla Nasa? Nei mesi scorsi la stampa americana (e italiana) ha enfatizzato il ruolo di Pharell Williams: non soltanto produttore del film, ma anche autore della colonna sonora. In realtà la soundtrack di Hidden figures (***1/2), questo il titolo originale del film, è un onesto e convenzionale lavoro firmato quasi per intero da uno specialista come Hans Zimmer, Oscar nel 1995 per le musiche di Il re leone. Pharrell, il re Mida del pop, quello che ha fatto ballare mezzo mondo con Happy, quello che ha scritto per Madonna, Kanye West, Daft Punk e decine di altri, si è limitato a fornire due canzoni, Runnin‘ (***1/2, tono cinematico vagamente da blaxploitation degli anni ’70) e I see a victory (***, un gospelone cantato con Kim Burrell). Proprio la Burrell, che il gospel lo canta davvero in una chiesa di Houston, Texas, è stata protagonista nelle scorse settimane di un infortunio clamoroso. Dal suo pulpito, durante un sermone, ha denunciato l’omosessualità come perversa: un peccato contro la natura di Dio. Insomma, l’interprete di una canzone contro la discriminazione che discrimina a sua volta. Provaci ancora, Pharrell, e magari la prossima volta scegliti le partner giuste.
Le Luci della Centrale Elettrica – A forma di fulmine/ Coprifuoco/ Chakra/ Iperconnessi
Lui il disco lo racconta così: «È un disco etnico, ma di un’etnia immaginaria (o per meglio dire “nuova”) che è quella italiana di adesso. Dove stanno insieme la musica balcanica e i tamburi africani, le melodie arabe e quelle popolari italiane, le distorsioni e i canti religiosi, storie di fughe e di ritorni». Un tempo era più tranchant, diceva «canzoni d’amore e di merda dalla provincia». Sarà che intanto ha scritto il testo per L’estate addosso di Jovanotti. Sarà che ha fatto un viaggio lungo il Po con Massimo Zamboni dei gloriosi CCCP e CSI e ne ha ricavato uno splendido libro a quattro mani per La Nave di Teseo, Anime galleggianti. Sarà insomma che il ferrarese Vasco Brondi in arte Le Luci della Centrale Elettrica, 33 anni e in pista da dieci, è nel frattempo cresciuto e ha passato la sua linea d’ombra, ma Terra (****1/2) è un gran bel disco, un classico della canzone d’autore contemporanea non immemore dei padri nobili (De Gregori e Battiato si sentono), ma affrancato da loro. Ragazze che ritornano Nel profondo Veneto, amori finiti (la malinconica Chakra), la precarietà di un mondo immerso nelle guerre e nello spaesamento, rotte di scafisti e migrazioni di popoli, incanti e disincanti del web (“Cantami o diva dello sciame digitale… da qualche parte c’è ancora sporchissimo il reale”, Iperconnessi), ma a ciglio asciutto, senza vittimismi e piagnistei, da “cani abbandonati ma invincibili”, con la consapevolezza, ricordo di un viaggio a Mostar di tanti anni fa, che “dove c’era un minareto o un campanile c’è un albero in fiore fra le rovine”. E in questo clima da Coprifuoco (“Tra le rovine ci siamo noi due accecati dal sole/ mentre cerchi di spiegare/ cos’è che ci ha fatto inventare/ la torre Eiffel le guerre di religione/ la stazione spaziale interstellare/ le armi di distruzione di massa e le canzoni d’amore”) spuntano, a sorpresa ma neanche tanto, le citazioni da Jared Diamond, da Vittorio Sereni e da Luciano Erba (“Toronto è una Varese più grande”). Con L’amore e la violenza dei Baustelle, finora il più bell’album italiano del 2017.
Sentieri Selvaggi eseguono Filippo Dal Corno, Giovanni Sollima e Carlo Boccadoro
Fondato nel 1997 da Carlo Boccadoro, Filippo Dal Corno e Angelo Miotto, l’ensemble milanese Sentieri Selvaggi si propone di portare la musica contemporanea a un pubblico più vasto del tradizionale circuito di nicchia. Nascono così le collaborazioni con diversi contesti (anche quelle di assoluto prestigio, La Scala per dirne una), la sede per il loro cartellone (il Teatro dell’Elfo), il rapporto di fiducia con compositori come Nyman, Vacchi, Bryars e tanti altri, i progetti discografici. Ora, con l’album Le sette stelle (****), Sentieri Selvaggi diretti da Boccadoro approdano alla major per eccellenza del repertorio classico e colto, la Deutsche Grammophon. Nell’album, composizioni della nuova leva italiana già valorizzata dall’ensemble (Luca Francesconi, Filippo Del Corno, Giorgio Colombo Taccani, Giovanni Sollima e Mauro Montalbetti) e Le sette stelle di Carlo Boccadoro in sette movimenti, composizione ispirata – ma non è musica religiosa – dall’Apocalisse di Giovanni. Cultweek, in occasione di questa uscita, ha incominciato con Irene Loddo a intervistare i musicisti di Sentieri Selvaggi. Voi intanto non perdetevi il disco.