La musica che gira intorno/7

In Musica

Il terzo album della raffinata pianista e compositrice danese Agnes Obel, il nuovo Cd del jazzista Orrin Evans, il cofanetto dei Pink Floyd e il notevole “Shakespeare songs” della coppia Pappano/Bostridge, alcune delle tante perle disseminate nella rubrica di questa settimana

Bob Weir – Gonesville/ Lay my Lily down
Sessantotto anni non sono una brutta età per scrollarsi di dosso un glorioso passato. Accade a Bob Weir, cantante e chitarra ritmica dei Grateful Dead, sovente messo in ombra dal più estroverso e funambolico Jerry Garcia. Con Blue Mountain (****), dopo sedici anni passati senza incidere niente, limitandosi a far crescere la barba e a suonare con altri, Weir ha realizzato il suo “cowboy album” riandando ai 12 anni in cui, ragazzino dislessico, imparava il mestiere del mandriano. Canzoni neanche tanto country, piuttosto dense di echi folk e di suggestioni eterogenee, in alcuni casi affini a quell’“americana” che proprio due album dei Grateful, American beauty e Workingman’s Dead, entrambe *****, contribuirono nei primi ’70 a fare nascere come genere. Un disco quieto e saggio, lontano dalle passate irruenze. Illuminato, ultima sorpresa, da una voce di rilassato carisma.


 

Conor Oberst – Counting sheep/ Next of kin
Dunque, mettiamola così: il mercuriale Conor Oberst di Omaha, Nebraska, è il cantante e compositore più vicino a Bob Dylan che l’ultimo ventennio ci abbia regalato, dicono i critici. Trentasei anni, attivo dal 1993, noto soprattutto per l’attività con i Bright Eyes – poco più che un prolungamento del suo songwriting –, con il settimo album solista Ruminations (***1/2), composto durante un inverno nevoso dalle parti sue e registrato in due giorni con chitarra, pianoforte e armonica, torna all’attitudine di folk scabro e di contenuti dolorosi e intimi che la produzione recente aveva messo in ombra. Guai, malattie e forse un po’ di ipocondria. “È un cattivo sogno, lo faccio sette volte alla settimana/ No, non sono io/ Ma io sono quello che deve morire”, Tachycardia. Oppure, su una crisi d’insonnia in un letto d’ospedale, “una pistola in bocca, cercando di dormire/ tutto finisce, tutto deve finire”, Counting sheep. Ci sono anche celebrità in disarmo (A little uncanny), l’indifferenza per lo stardom, un marito che apprende la notizia che la moglie è morta (Next of kin), il disagio mentale (Till St. Dymphna kick us out). Tutto il mio rispetto e la mia empatia, ma andare a svernare in un clima più caldo e soleggiato?


 

Agnes Obel – Familiar/ It’s happening again
Tra le belle sorprese di questo 2016 va messo Citizen of glass (****) di Agnes Obel, 36 anni, cantante pianista e compositrice danese di stanza a Berlino. È il suo terzo lavoro, dopo gli acclamati (soprattutto in patria, nei paesi nordici e in Francia) Philharmonics del 2010 e Aventine del 2012. Pianoforte e pochi altri strumenti (archi, spinetta, celesta, il piano lutéal con sonorità da cymbalon che Ravel usò in L’enfant et les sortileges e in Tzigane), un’elettronica discreta e retrofuturista (il mellotron, il trautonium che è l’antenato di un secolo fa degli attuali sintetizzatori). Quel che fa la differenza è la voce, carezzevole e perturbante al tempo stesso, moltiplicata e frammentata dalle tecniche di registrazione (la si ascolti nei toni bassi di Familiar). Canzoni di grande eleganza e con una patina classicheggiante, di forte emotività e con qualche inquietudine, inclini a chiedersi quanto sia giusto rivelare di sé e di esporsi, come accade ai “cittadini di vetro” dell’era digitale spossessati di ogni privacy e offerti nudi in pasto al mondo, anche soltanto dei social.


 

Ivan Lins – Ainda é cedo / Love dance
Ivan Lins, nato a Rio de Janeiro nel 1945, da noi è uno dei segreti meglio custoditi della musica brasiliana (fra i suoi estimatori c’è però Ivano Fossati), mentre altrove i suoi brani sono stati eseguiti, nel corso del tempo, da Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Quincy Jones, Manhattan Transfer, Diane Schuur, Sting e altri. Figlio di un ingegnere navale, laurea in ingegneria chimica industriale, tentato dalla pallavolo prima di scoprire la passione per la musica, Lins è in pista dal 1970, quando compose Madalena per Elis Regina. Da allora il successo non è mai venuto meno. Per rendersi conto della sua classe, della sua souplesse jazz, basta ascoltare il recentissimo singolo Ainda é cedo (qui sotto assieme alla sua canzone più popolare, Love dance) oppure, su Spotify, Muito bom tocar junto (****), inciso qualche anno fa con il produttore Geraldo Flach o, ancora, Anos ’70 ao vivo (****). Ivan Lins è in concerto al Blue Note il 24 novembre.

 

Piccola Orchestra Gagarin – Cançó de bressol/ Corsicanskaya
Dai tempi degli emiliani CCCCP non sentivo un afflato così vintage, affettuoso e ironico al tempo stesso, per l’immaginario dell’ex Unione Sovietica. In questo Vostok (****), registrato dal vivo a Barcellona, oltre alla mitica navicella spaziale sono citati gli astronauti Jurij Gagarin e Valentina Tereskova e la cagnetta Laika. Rende loro omaggio un trio composto dal sardo Piero Angeli (chitarra e voce), dal russo Sasha Agranov (violoncello e campionamenti) e dal catalano Oriol Roca alle percussioni. Musica ironica e difficile da incasellare, tra il cameristico e l’etnico, il jazz e il dub, con incursioni nel post-rock e canti sardi (galluresi, logudoresi) passati per il frullatore sonoro di Tom Waits e Marc Ribot. Qui sotto, un brano del loro album e un classico sardo, Corsicana, con trattamento soviet & free. Intriganti.

 

Pink Floyd – Nothing part 14/ Jugband blues
Archivisti sonori di tutto il mondo, unitevi. Anche i Pink Floyd, che lo scorso anno giurando il falso dicevano di non avere più inediti in cassaforte, hanno fatto parola torna indietro. Per licenziare un The early years sontuoso (****1/2) di 27 dischi raggruppati in sette volumi, dal 1965 al 1972. Cd, dvd, blu-ray, vinili e memorabilia per 12 ore di musica, 15 ore di filmati e 7 ore di esibizioni live finora inedite. Mai pubblicati prima neppure 20 demo con Syd Barrett, che colpito dalla follia abbandonò il gruppo dopo le prime prove per essere sostituito da David Gilmour (un demo, Nothing part 14, lo trovate qui sotto) e i brani scartati che i Pink Floyd composero per la colonna sonora di Zabriskie Point di Antonioni. Oltre all’opus magnum, c’è un’edizione economica in due cd che trovate anche su Spotify. Insomma, non si butta via niente.


 

Ian Bostridge & Antonio Pappano – Come away, come away death/ Who is Sylvia?
Bel sodalizio, quello fra Ian Bostridge e Antonio Pappano, cominciato nel 1999 e ottimamente cementato da questo incantevole Shakespeare songs (****1/2), che parte dalla musica di scena coeva al Bardo (William Byrd, Thomas Morley, Robert Johnson) per risalire ai grandi autori di lieder (Haydn, Schubert) e approdare al ‘900 soprattutto inglese (Britten, Finzi, Gurney, Warlock, Tippett) e ad alcuni maestri contemporanei: Poulenc, Korngold e soprattutto Stravinskij. Peccato potere offrire, YouTube non consente altro, soltanto le due composizioni di Gerald Finzi che trovate qui sotto, sarebbe stato bello farvi ascoltare il meraviglioso Haydn e il barbarico, in qualche modo preshakespeariano Stravinskij. Potete rimediare su Spotify. Quanto ai due soci d’impresa, di sir Anthony Pappano sappiamo più o meno tutto. Meno su Ian Bostridge, londinese del 1964, il più duttile e intimo tenore cameristico di oggi, degnissimo erede di Dietrich Fischer-Dieskau. Grande interprete e notevole intellettuale, Bostridge: prima di dedicarsi al canto, ha insegnato al Corpus Christi di Oxford teoria politica e storia inglese del XVIII secolo, scrivendo anche un libro assai lodato (La stregoneria e le sue trasformazioni 1650-1750, per la Oxford University Press) e, di recente, un saggio sul Winterreise di Schubert che in Italia è stato tradotto dal Saggiatore. Di Bostridge, assieme a questo, è uscito anche un altro album, Songs from our ancestors (***1/2), in partnership con il chitarrista classico cinese Xuefei Yang, che contiene fra le altre splendide interpretazioni dell’elisabettiano John Dowland.

 

Alexander Hawkins – Step wide, step deep/ Space of time danced thru
Del pianista e organista inglese Alexander Hawkins non si può che dire bene. Nato a Oxford 35 anni fa, studi in legge e specializzazione in criminologia, guida tre formazioni: l’Ensemble con cui lo ascoltiamo in concerto alle 11 del mattino al Teatro Manzoni il 27 novembre (lui più sax, chitarra elettrica, violino, basso e batteria), un trio e l’ulteriore trio Decoy in cui suona l’organo. Per rendersi conto della sua maestria a cavallo fra tradizione e avanguardia (il suo pianista preferito è Art Tatum, ma ha frequentazioni intense e proficue anche con Cecil Taylor e Marilyn Crispell), basta ascoltarlo nel recentissimo Leaps in Leicester (****), in cui dialoga con il tenorista Evan Parker.

 

R. E. M. – Losing my religion
Deluxe edition anche per l’ottimo Out of time (****1/2), forse l’album più significativo dei R. E. M. assieme ad Automatic for the people (*****). Formati per tutte le tasche e per tutti i gusti: doppio cd, triplo lp, box deluxe con quattro dischi. In più, rispetto all’originale, ci sono demo inediti come quello che ascoltate qui sotto, B sides e, nel box, un live del 1991. Personalmente non ne avvertivo la necessità, ma a qualcuno piace abbondante.

 

Ludovico Einaudi – Elegy for the Arctic
Esce su tutte le piattaforme Elegy fot the Arctic (***1/2), la nuova composizione del torinese Ludovico Einaudi, fra i compositori a cavallo tra musica colta e non so il più acclamato, eseguito e insignito di onorificenze. La musica è seducente come gran parte delle gradevolissime nugae che attraversano la nostra vita. E il video, girato su un frammento di iceberg di fronte al Wahlenbergbreen, un ghiacciaio delle isole Svalbard, è di indubbia suggestione, realizzato per una campagna di Greenpeace in difesa dell’Artico.

 

Erroll Garner – Night and day/ Stella by starlight
Lo confesso: prediligo i pianisti jazz intimi e rarefatti ma, per chissà quale legge del contrappasso, mi sorprendo ad ascoltare con vivo piacere i grandi gigioni, i pianisti spettacolari che eccedono nell’ornato e nell’arabesco. Art Tatum è il maggiore di questi, un altro è l’autodidatta Erroll Garner (1921-1977), che si vantava di non saper leggere una sola nota, esempio tra i più cospicui del talento istintivo nel jazz. Con l’aggravante del successo: il suo Concert by the sea del 1958 arrivò a vendere oltre un milione di copie, ed è un peccato che difficilmente gli spiriti schizzinosi perdonano. Ora la Columbia stampa con il titolo Ready take one (****) 14 registrazioni effettuate tra il 1967 e il 1971 e rimaste finora inedite per controversie legali. Ci sono sorprendenti composizioni originali (Lounge music è la migliore per la tecnica superlativa, ma non manca neppure il suo standard più noto, Misty) e iridescenti versioni di classici come Caravan, Satin doll e i due che vi propongo qui sotto. “Ready take one”: buona la prima, per tutte queste registrazioni.


 

Litfiba – L’impossibile
Piero Pelù e Ghigo Renzulli, dopo anni spesi a ignorarsi e/o a farsi la guerra, e dopo una reunion che li ha visti rivisitare l’antico repertorio, si sono decisi a sfornare un album di materiale inedito. Ruvido, combattente e con molta inevitabile retorica (“Se Eutopia è un sogno voglio continuare a sognare, se Eutopia è uno sbaglio io voglio continuare a sbagliare, se Eutopia è lotta io voglio continuare a lottare”, Eutopia (***1/2), è il “ritorno al futuro” della band fiorentina. La lotta fra i deboli e i potenti della terra (L’impossibile e Dio del tuono), la collaboratrice di giustizia Lea Garofalo uccisa dalla ‘ndrangheta (Maria coraggio), la strage del Bataclan (In nome di Dio), la terra dei fuochi (Intossicato), l’ “isola che c’è” (Eutopia). Bentornati dagli anni ’80.

 

Thegiornalisti – Tra la strada e le stelle
Bisogna crederci proprio e avere rinunciato a ogni freno inibitorio per scrivere e cantare: “Se sei completamente pazzo di lei o di lui diglielo, non avere paura, non tenerti, la vita è una e i momenti passano”. Bisogna non avere paura di essere in sintonia con il Vasco Rossi di Bollicine per scrivere e cantare: “Sbagliare a vivere mi piace un sacco”. Al quarto album i romani Thegiornalisti, che razza di nome!, offrono con Completamente sold out (***1/2) una godibile e spudoratissima enciclopedia del synth pop che andava per la maggiore negli anni ’80: Vasco e Venditti, Carboni (Tommaso Paradiso, leader della band e autore di tutte le canzoni, scrive anche per lui) e Raf, gli 883 e gli Oasis, Jovanotti e Grignani e molto altro ancora. Canzoni notturne e romanticone con strofe e ritornelli in bella evidenza, da cantare in coro facendo scattare l’accendino.

 

Joan as Police Woman – Broke me in two
Joan Wasser aka Joan as Police Woman (il nome d’arte è quello di una serie tv degli anni ’70 con Angie Dickinson), più che mai irrequieta, cambia ancora direzione. La cantautrice americana, che è stata violinista e cantante post-punk prima di fare la “poliziotta” vira stavolta, con la complicità di Benjamin Lazar Davis, ex Okkervil River, verso un alt-pop sperimentale che privilegia la ritmica e un’elettronica frammentaria e robotica. Ne risulta un album, Broke me in two (***), non privo di fascino ma irrisolto e transitorio. Joan e Davis sono in concerto il 27 novembre al Magnolia.

 

Stefano Gervasoni – Le pré
Il bergamasco Stefano Gervasoni, classe 1962, allievo di Luigi Nono, Azio Corghi e Luca Lombardi, a lungo residente in Francia, è tra gli esponenti italiani più in vista della musica colta contemporanea. Nei diciotto brevi pezzi pianistici Le pré (tre libri, composti fra il 2008 e il 2015, ****), Gervasoni gioca attorno al concetto di infanzia: “pré” come prato e come “prima”, musica e vita in nuce prima, appunto, di una compiuta forma adulta. Musiche concise, soltanto in apparenza ingenue, perturbanti, eseguite senza una sbavatura da Aldo Orvieto al pianoforte (le trovate su Spotify, qui sotto sono eseguite da Franco Venturini). Nel disco anche Sonatinexpressive del 2012 per piano e violino (Saori Furukawa) e due “riscritture”: Luce ignota della sera (da Abendlied di Schumann per piano a quattro mani), qui per piano e live electronics (Alvise Vidolin) e Adagio ghiacciato da Mozart, per pianoforte giocattolo preparato e violino con sordina.

 

Murubutu – Linee di libeccio/ Scirocco
Non capita tutti i giorni di sentire un rapper nostrano diffondersi sull’arché di Anassimene o parlare di wanderlust. Accade in questo L’uomo che viaggiava nel vento (e altri racconti di brezze e correnti), ****, di Murubutu, uno che ama i titoli lunghi come quelli dei film di Lina Wertmuller, se è vero che i suoi tre album precedenti si intitolavano Il giovane Mariani e altri racconti (2009), La bellissima Giulietta e il suo povero padre grafomane (2011) e Gli ammutinati del Bouncin’ (ovvero mirabolanti avventure di uomini e mari) (2014). Lui è Alessio Mariani da Reggio Emilia, classe 1975, insegnante di storia e filosofia nei licei e, nella sua vita parallela, rapper dal 1991. Il precedente lavoro era un concept album dedicato al mare, questo ha il vento a fare da collante di storie dal notevole spessore narrativo – si è parlato, per lui, di “letteratura(p)” – su vite rurali in Argentina (La bella creola), danza come riscatto (Grecale), grigiore provinciale da cui scappare (Scirocco), matrimoni combinati a cui ribellarsi (Dafne sa contare), spose di guerra e miserie del dopoguerra (Linee di libeccio), incursioni nella storia antica (L’armata perduta di re Cambise). Lui dice che “un altro rap è possibile”. Ha ragione e lo dimostra.

 

Goat – Union of mind and soul/ Goatfuzz
Del collettivo svedese Goat (di stanza a Göteborg, ma loro dicono di venire da Korpilombolo, nell’estremo nord del paese) non si conoscono i volti né i nomi dei componenti. Sul palco si presentano mascherati, conquistano i più importanti festival rock (due edizioni di Glastonbury, il Coachella, di recente il Primavera Sound di Barcellona) e spariscono. Tre dischi all’attivo, con lo splendido Requiem (****1/2) danno corpo alla loro idea di world music solare mescolata a robuste dosi di psichedelia e di suono Seventies. Flauti andini, percussioni caraibiche, deliziose incursioni nelle sonorità mediterranee, nel desert blues, nel calypso e nell’afrobeat. Un’ora e passa di pura magia, tredici brani tra i quali è difficile scegliere. Degni eredi di Brian Eno e David Byrne (My life in the bush of ghosts, *****) e di Paul Simon (Graceland, *****), altamente raccomandati.


 

Roberto De Simone e NCCP – Villanella di Cenerentola/ Canzone delle sei sorelle
Compie quarant’anni La gatta Cenerentola (*****), eseguita in prima assoluta nel 1976 al Festival di Spoleto. Capolavoro del musicologo e regista teatrale Roberto De Simone, che compose il testo di questa “fiaba in musica in tre atti” ispirandosi alla proto-Cenerentola del Cunto de li cunti di Giambattista Basile (le cenerentole di Perrault e dei fratelli Grimm, per non parlare di quella disneyana, verranno dopo). E le musiche attingendo al ricco patrimonio popolare non soltanto campano (villanelle, tammorriate, tarantelle) e, insieme, all’opera buffa e alla musica rinascimentale (Orlando da Lasso, Gesualdo da Venosa). Una fiaba nera, violenta, erotica, magica, popolata di cortigiani e femminielli, lavandaie e zingare, monacielli e soldati. La superba interpretazione dei musicisti della Nuova Compagnia di Canto Popolare, ai quali si aggiunsero Beppe e Concetta Barra e altri, fanno anche del disco, che serba intatto lo splendore originario, uno dei più belli di sempre della canzone italiana.

 

Orrin Evans – #knowingishalfofthebattle
Il pianista jazz contemporaneo che più mi ha affascinato negli ultimi mesi è il 41enne Orrin Evans, nato a Trenton nel New Jersey, cresciuto a Philadelphia e tra gli animatori della nuova scena di New York. Un pianismo percussivo e laconico il suo, che sbozza appena i temi e li disintegra in ripetuti ostinato, e che mi fa venire in mente McCoy Tyner. Lo assecondano in questo ottimo #knowingishalfofthebattle (****) due chitarristi due, Kevin Eubanks che per 15 anni ha diretto la band del “Jay Leno Show”, e Kurt Rosenwinkel già con Gary Burton e Paul Motian (tutto da sentire il suo lavoro di fino in Chiara), il bassista Luques Curtis, il batterista Mark Whitfield jr., la cantante M’Balia (ottima la sua prova in That’s all) e il sax alto di Caleb Curtis (splendido in Doc’s holiday e Heavy hangs the head that weats the rown). Tra le perle dell’album, che potete ascoltare su Spotify mentre il video qui sotto offre una session preparatoria, anche una notevole Kooks di David Bowie.

 

Trio Cajkovskij – Trio elegiaco op. 50 di Cajkovskij
Nato a Mosca nel 1975 dall’incontro fra il violinista Pavel Vernikov, il pianista Konstantin Bogino e il violoncellista Anatoly Liberman (sostituito nel 2009 da Alexander Chaushian), il Trio Cajkovskij è una delle realtà più solide della musica da camera. Affezionati a Milano e di frequente ospiti delle varie stagioni concertistiche meneghine, i tre musicisti russi suonano il 30 novembre al Conservatorio. In programma, naturalmente, il nume tutelare Cajkovskij (un’ampia scelta di Le stagioni e il Trio elegiaco in la minore op. 50) e il Trio n. 3 op. 52 di Anton Rubinstein, che fu il maestro di Cajkovskij nonché il fondatore della scuola pianistica russa.

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