Pop, elettropop, rock, psichedelica, jazz, elettronica, klezmer, contemporanea: i nuovi album, le ristampe, gli eventi musicali significativi
L’APPUNTAMENTO
Piano City da venerdì 19 a domenica 21 maggio
Piano City Milano compie sei anni. E per tre giorni invade la città, la provincia e la regione con un diluvio di eventi, ben 455. Pianoforti nei luoghi da concerto, ma anche in piazza, in bicicletta, negli aeroporti e nelle carceri, nelle banche e negli showroom, nei ristoranti e nelle scuole, nei giardini pubblici e nelle chiese, nei cortili e nelle case private, all’alba e di notte. Pianoforte in tutte le declinazioni, dalla classica al jazz alla contemporanea, dalle performance alle maratone alle lezioni. Grande apertura venerdì 19 alle 21, al Piano Center (GAM e Giardini di Villa Reale in via Palestro) con Jason Beck alias Chilly Gonzales, pianista compositore rapper e scrittore, un Grammy vinto con i Daft Punk e un primato da Guinness con la più lunga performance di sempre (ascoltate il suo ultimo disco in coabitazione con Jarvis Cocker, l’eccellente Room 29, ****). Tra gli altri eventi clou l’integrale delle sonate di Beethoven, l’omaggio a due giganti del pianismo jazz come Scott Joplin e Thelonious Monk e i Toy Pianos di Michael Nyman. Ma c’è di più, infinitamente di più, a tutte le ore, andate a cercarvi il programma su http://www.pianocitymilano.it/
Anohni – Jesus will kill you/ Ricochet/ She doesn’t mourn her loss
La cantante che si chiama Anohni e che una volta era Antony Hegarty, voce celestiale di Antony & The Johnsons, ritorna a un anno di distanza dal’ottimo Hopelessness con l’EP Paradise (***1/2), e dall’album prende le mosse per un post-soul macchiato di elettronica che alterna veemenza e riflessività. Militanti e non banali i testi, alla produzione Oneothrix Point Never e Hudson Mohawke.
Blonde Redhead – Golden light/ Where your mind wants to go
Due gemelli milanesi cresciuti in Canada, Amedeo e Simone Pace, uno alla voce e chitarra e il secondo alla batteria, incontrano a New York, nel 1993, la giapponese Kazu Makino, anche lei cantante e chitarrista. Innamorati della no wave e del noise rock dei Sonic Youth, formano i Blonde Redhead, che daranno i loro frutti più pregiati a cavallo tra vecchio e nuovo millennio (In an expression of the inexpressible del 1998, Melody of certain damaged lemons del 2000, Misery is a butterfly del 2004, 23 del 2007 e Barragàn del 2014), spostandosi intanto verso una canzone d’autore underground. I quattro brani dell’EP 3 ‘o clock (****) sono sontuosi inediti, con il loro raffinato e sinuoso pop orchestrale, dell’album del 2014. Avercene, inediti così.
Blondie – Doom or destiny/ Long time/ My monster
A volte ritornano, e pazienza se Deborah Harry vista nei video assomiglia sempre più a Wanda Osiris. Ritornano i Blondie con quel mischione di new wave e dance, con quell’attitudine punk (americana, più artsy e meno nichilista di quella inglese) sciacquata nel pop, che verso la fine degli anni ’70 fece furore facendo, per di più, anche ballare. Pollinator (***1/2) ha la pretesa di fermare il tempo. Come se oggi fosse ancora il 1978 di Parallel lines. In qualche modo, ci riesce.
Elbow – Magnificent (She said)/ Gentle storm/ Firebrand & Angel/ Kindling
Una tempesta gentile, come dice il titolo di una loro canzone. Dopo vent’anni di carriera e sei album, gli Elbow, raffinati artigiani rock di Manchester, continuano a esplorare la vita quotidiana e i moti ondivaghi del cuore. In Little fictions (****) partono dal ritmo, che inquadra e dà risalto a melodie anni ’80 e alla voce di Guy Garvey che ha il pathos di Peter Gabriel e, a volte, di Michael Stipe. Dal ritmo perché, uscito dalla formazione il batterista Richard Jupp, il suo posto è stato preso dal tastierista e sound designer Craig Potter che costruisce architetture sonore di loop e piccole insistenze. Molte le reminiscenze, in queste canzoni meditative, lente a crescere e meticolose nell’architettura: gli U2 e i Radiohead, i R. E. M. e, in certi scampanii e in certa perentorietà vocale (All disco) gli Smiths di Morrissey. Un album compatto, da ascoltare e riascoltare.
Father John Misty – Pure comedy/ Thing it would be hopeful to know before the revolution/ When the God of love return there’ll be hell to pay/ So I’m growing old on magic mountain
Si prende sul serio, anche se ogni tanto l’istrione fa capolino. Si considera un artista e non un intrattenitore. «L’intrattenimento ha a che fare con il dimenticare, mettere da parte la tua vita. L’arte ha a che fare con il ricordare, con il ricordare il miracolo che è l’esistenza umana». L’esistenza umana però, in Pure comedy (****1/2), assomiglia a uno spettacolo orrorifico, con religioni che producono zombies e la politica che incorona clown, l’allusione a Donald Trump è trasparente. Stiamo parlando di Father John Misty, cantautore con il vezzo della riflessione sui misteri del mondo (con il vezzo della predica?) e nome d’arte di Josh Tillman, classe 1981, figlio ribelle di una famiglia evangelica del Maryland. Dopo nove dischi a suo nome passati abbastanza inosservati, dopo cinque anni trascorsi a fare il batterista dei Fleet Foxes, il bruco è diventato farfalla e Tillman è diventato Padre John il Nebuloso. Pure comedy è il terzo album del nuovo corso. In perfetto, azzardato equilibrio fra logorrea e perfezione (canzoni spesso assai lunghe, una vocazione alla riflessione tuttologica che ricorda, se non David Foster Wallace, almeno Jonathan Franzen). Per i testi che parlano appunto di religione, di politica-spettacolo, di fake news e big data, di rivoluzione. Per le musiche di classicità westcoastiana e cantautoriale. Per la voce infine, la più rotonda che io abbia sentito, se non dai tempi dell’Elton John più ispirato, almeno da quelli di Rufus Wainwright, artista con cui il nostro Misty ha molti tratti in comune, dalla solennità complessiva all’ardimentosità barocca al gusto della provocazione.
Aimee Mann – Goose snow cone/ Stuck in the past/ Good for me/ Poor judge
Accusata da sempre di fare canzoni lente e tristi, Aimee Mann si è vendicata facendo l’album più lento e triste della sua carriera. Mental illness (****1/2), che dei suoi dischi è il numero nove, è molto vicino al capolavoro. Per la virginiana cresciuta a Boston e da tempo di stanza in California, il suono acustico della West Coast e di certi cantautori anni ’70 (Neil Young, ma soprattutto Joni Mitchell e Dan Fogelberg, secondo me anche Elton John nell’orchestrazione di Poor judge) è il più congeniale. Come lo è raccontare il lato buio e notturno, la parte non pacificata delle esistenze, cominciando dalla sua. Introspezione che vola alto, lo aveva già fatto con le otto canzoni che erano andate a finire nella colonna sonora di Magnolia. Un album profondo e ricco, tutto giocato sulle antifrasi: la musica più calma e quieta che si possa immaginare per raccontare la paura, l’ansia, la nostalgia e la depressione. Olio per neonati e tanto tanto borotalco sulle piccole e grandi escoriazioni delle nostre vite.
Francesco Gabbani – Tra le granite e le granate/ Occidentali’s karma/ Susanna, Susanna
Carino, sì, d’accordo, per Sanremo addirittura rivoluzionario, ma non scaldiamoci troppo: carino appunto, niente di più. Stiamo parlando del simpatico carrarese Francesco Gabbani, trionfatore al Festival con l’astuta e contagiosa Occidentali’s karma. Ora esce l’album Magellano (***), che ripete la formula con il probabile tormentone estivo Tra granite e granate. Elettropop, giochi di parole un po’ paraculi che fingono profondità e propiziano il trenino intelligente ai Bagni Mariuccia, e infatti le canzoni più “serie” sono anche le meno memorabili. Carina la cover di Susanna, Susanna di Celentano.
Giangilberto Monti – Metrò / Se non ci fossero le zanzare/ Gino, le parole/ Tamburi di notte/ Innamorato di Parigi/ Gli avvoltoi/ Il mio condominio/ Quando e dove andiamo?
La migliore Anna Oxa di sempre l’ho scoperta in questi giorni. Sta in un’opera rock del 1982, Guardie e ladri (****), del milanese Giangilberto Monti, e canta la strepitosa Gino, le parole. Assieme a lei e a Monti, in Guardie e ladri, che la Sony ha rieditato e rimasterizzato ma solo in formato digitale, c’è un cast stellare: Flavio Premoli della Pfm autore di tutte le musiche, Roberto Colombo alla produzione, al canto Alberto Camerini e Francesco Di Giacomo del Banco di Mutuo Soccorso. Voce recitante un mio vecchio amico, Guido Robustelli, decano degli uffici stampa musicali. L’opera rock di Monti, com’era tipico di quegli anni, immaginava tra sarcasmo e solidarietà un mondo del dopo-bomba rintanato nei cunicoli della metropolitana. Milanese, classe 1952, avrebbe dovuto fare l’ingegnere e ha fatto il cantautore e l’agitatore culturale (anche tanto teatro, anche tanti bei libri su canzone d’autore comicità e cabaret), Monti ha scritto canzoni che si ricordano ed è stato, assieme a pochissimi compagni d’avventura, un tramite indispensabile per conoscere la canzone colta francese: molto Vian, Gainsbourg, Ferré li ha tradotti lui (cercate il più che notevole Maledette canzoni, ****). Ora torna ai vecchi amori con il freschissimo Canti ribelli (****), dedicato al canzoniere del coetaneo Renaud. Star in Francia e quasi sconosciuto da noi, anarchico e acre, Renaud è magistrale nel raccontare la vita delle banlieue e nel prendere di mira di tic e tabù del filisteismo piccolo-borghese, anche e soprattutto di sinistra. E Monti lo rende assai bene.
IL RECUPERO
Tim Buckley – I never asked to be your mountain/ No man can find the war
Non si trattano così i miti del rock. Del grande, visionario e autodistruttivo Tim Buckley (1947-1975), morto a neanche trent’anni per un’overdose di alcool ed eroina, alfiere di un’autorialità che partendo dal folk vi incorporava psichedelia e jazz, straordinario sperimentatore della possibilità della voce, escono adesso (Lady, give me your key, ***) i nastri embrionali delle canzoni che sarebbero poi confluite, parzialmente, in Goodbye and hello (1967, ****). Sono provini dimostrativi, per dare un’idea al produttore Jerry Yester del materiale che si sarebbe trovato fra le mani. E se la voce di Buckley rifulge, la chitarra che la accompagna non dà neppure alla lontana un’idea della potenzialità dei brani. Facciamo la prova con due canzoni: su Spotify trovate quelle tratte dai provini, su YouTube quelle finite nel disco. Insomma, quei nastri dovevano restare in un cassetto. Brutta cosa, certi eredi: al figlio di Tim Buckley, lo straordinario Jeff finito male anche lui, che in vita sua aveva registrato un solo album, hanno costruito una discografia di quasi venti titoli. Persino del maiale si butta via qualcosa.
Arto Lindsay – Grain by grain/ Each to each/ Su pai/ Uncrossed
La definizione migliore di Cuidado madame (****), nuovo album di studio di Arto Lindasy dopo tredici anni di silenzio, l’ha data il sito americano Pitchfork: «Una congiunzione di rara bellezza e inconfondibile individualità di rumorismo astratto e tropicalismo, di clamore e glamour». Chi conosce Arto Lindsay, 63 anni, nato in Virginia da due missionari presbiteriani ma cresciuto a Pernambuco, lo sa bene. Un’anima divisa in due, la sua. Passione per i suoni brasiliani (è stato fra le altre cose produttore di Caetano Veloso e Marisa Monte) e coinvolgimento nell’avanguardia newyorchese della no wave, che nei primi anni ’80 insorgeva a colpi di atonalità e cacofonie assortite, di ripetitività e strumenti percossi, contro l’estetica giudicata mainstream della new wave. Di quell’esperienza rimangono gruppi consegnati agli annali come i Dna e i Lounge Lizards, quell’esperienza prosciuga e stilizza oggi in Cuidado madame il tropicalismo, con i ritmi del candomblé usati come traccia ritmica anche quando non si avvertono e l’inconfondibile chitarra a undici corde, suonata con la classe di chi non si preoccupa di saper suonare, che accompagna il suo canto sommesso e fascinoso, sempre sull’orlo della melodia e dell’intonazione.
The Knights – Ascending bird/ Song to the moon/ Azul: Paz sulfurica/Tierkreis: Leo
Creatura di Eric e Colin Jacobsen, ha nome The Knights una straordinaria orchestra di New York, flessibile per organico e per repertorio, nata alla fine degli anni ’90 in seguito a prove informali a casa dei due fratelli. Attiva in pubblico dal 2004, teorizza la commistione dei generi (The Knights eseguono brani barocchi e classici, klezmer e contemporanei, jazz o indie rock) e l’amicizia tra i componenti. In questo bellissimo Azul (*****) ospite d’eccezione è il grande Yo-Yo Ma. In repertorio appunto Azul, sonata per violoncello in quattro parti dell’argentino Osvaldo Golijov, classe 1960, che fonde in maniera splendida e originale tango, klezmer, musica colta e gypsy. Non da meno Ascending bird di Siamak Aghaei e Colin Jacobsen, la Canzone alla luna di Dvorak, da Rusalka, lo scintillante Stockhausen di Tierkreis: Leo e quattro canzoni di Sufjan Stevens. Pura meraviglia.