Psichedelia, reggae, krautrock, blues, pop-rock, folk, shoegaze, jazz, contemporanea, classica: i nuovi album, le ristampe, gli eventi musicali significativi
L’APPUNTAMENTO
Lived in bars (Cat Power)/ Mazel & On a heym (Ute Lemper)/ Shut up kiss me (Angel Olsen)/ Seven words (Weyes Blood)
Settimana di interpreti e autrici femminili a Milano. Fosse per me, adesso controllo l’agenda, me ne andrei a Brescia (martedì 6, alla Latteria Artigianale Molloy) a pendere dalle labbra di Cat Power, la più talentuosa delle nipotine di Bob Dylan. Ma anche in città, gli appuntamenti da leccarsi i baffi non mancano: con la chanteuse Ute Lemper (mercoledì 31 maggio al Teatro Strehler) e con le rivelazioni post-folk, che già ho segnalato nei scorsi mesi come imperdibili, di Angel Olsen (giovedì 1 giugno alla Salumeria della Musica) e di Weyes Blood (lunedì 5 giugno al Serraglio).
Se siete appassionati, o anche soltanto ossessivo-compulsivi, magari riuscite a fare poker.
Baba Zula – Ozgur ruh/ Bir sana bir de bana/ KK
La chiamano Istanbul psychedelia o Bosforo rock, frulla folk dell’Anatolia, krautrock tedesco (ad alcuni album ha partecipato il bassista degli Einstürzende Neubaten), reggae e dub. E usa, ovviamente, tanta elettronica assieme alla strumentazione tradizionale dei cordofoni turchi (oud, saz). Aggiungete l’attitudine danzereccia e la presenza di una danzatrice del ventre nelle esibizioni dal vivo, e avrete un’idea della miscela esplosiva dei Baba Zula, in pista dal 1996. Il recente XX (***1/2) è in buona sostanza un greatest hits della loro ventennale carriera, che privilegia le versioni live e i remix. Sempre che Erdogan sia d’accordo.
Eric Bibb – Refugee moan/ Prayin’ for shore/ Migration blues/ Masters of war
Da tempo residente in Europa (prima stava a Parigi, ora vive a Stoccolma con la moglie), il cantautore blues newyorchese Eric Bibb, classe 1951, dopo più di trenta album incisi, non perde smalto con Migration blues (****), scabro e ispirato rendiconto delle migrazioni odierne e passate, dei rifugiati di oggi che scappano da guerre e carestie, di quelli di ieri che lasciavano il Delta per Chicago, il Messico per gli Stati Uniti. Nell’impresa Bibb ha al suo fianco due ottimi strumentisti, l’armonicista J. J. Milteau e il canadese Michael Jerome Browne mago della steel guitar e del violino. Spiccano, oltre alle sue composizioni, due classici come Masters of war di Bob Dylan e Pastures of plenty di Woody Guthrie. Tanto per mettere le carte in tavola.
Mac DeMarco – My old man/ Baby you’ re out/ Still beating/ On the level
Hanno tirato in ballo Neil Young («Un Harvest con i sintetizzatori») e anche Paul Simon e James Taylor. Esagerando, senza dubbio, ma il piacevole This old dog (***1/2), terzo album del canadese di origine italiana Mac DeMarco, 27 anni, va in quella direzione. Un songwriting sinuoso e rilassato come la voce, un pop-rock morbido e cool. E un album da one-man band: tutti gli strumenti (soprattutto chitarra acustica e synth, ma ci sono anche spruzzate di chitarra elettrica, piano e armonica) li suona lui.
Hurray for the Riff Raff – Living in the city/ Nothing’s gonna change that girl/ Rican beach/ Fourteen floors
Una band di New Orleans guidata da una giovane donna portoricana allevata da una zia nel Bronx: ecco gli Hurray for the Riff Raff e il loro leader, Alynda Segarra. Cresciuta per strada (ha lasciato la famiglia a diciassette anni), nomade per gli States a bordo dei treni merci come gli hobo di un tempo prima di stabilirsi nella Crescent City, Alynda Segarra ha una voce dal fascino sottile e un songwriting che recupera le mille musiche d’America (da bambina amava il doo-wop e il sound Motown) accompagnandole con testi maturi e impegnati, sulla scia della grande protest song. Accade così anche per The navigator (****), concept album di cristallino impianto post-folk urbano rinvigorito qui e là da ritmiche latine, su una giovane ribelle che scopre la solidarietà e riscopre le radici. L’America contro i muri di Trump qui trova una voce in grado di rappresentarla.
Kasabian – You’re in love with a psycho/ Good fight/ Wasted/ The party never ends
«Serve energia positiva in questo periodo. A tutti. A noi inglesi in primis, con quel disastro totale che è Brexit. Ora vediamo che cosa succederà, intanto con questo disco cerchiamo di guarire le ferite». Così Sergio Pizzorno, figlio di un italiano e frontman dei Kasabian da Leicester, della cui squadra di calcio è tifoso come i compagni, al punto da suonare allo stadio per i concittadini, dopo la vittoria dello scudetto lo scorso anno. Rock da stadio, il loro. Con poche raffinatezze ma, dopo il mezzo pasticcio elettronico di 48:13, ben vengano le canzoni da ballare e da cantare a squarciagola di questo For crying out loud (***, che restano impresse fin dalle prime battute e riecheggiano di tanto in tanto il buon vecchio britpop. I Kasabian saranno in Italia a luglio, a Milano per vederli al Forum di Assago dovremo attendere il 3 novembre.
Slowdive – Star roving/ Don’t know why/ Sugar for the pill/ No longer making time
A ciascuno la sua nostalgia. Sono tornati il garage, il punk, la new wave e la psichedelia, torna persino lo shoegaze. Il genere, molto british e molto circoscritto nel tempo (grosso modo fra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90) venne al tempo stesso esaltato e sottilmente deriso dalla stampa musicale inglese. Shoegazing ovvero guardarsi la punta delle scarpe, un po’ più giù dell’ombelico ma insomma siamo lì: musica introversa e autoreferenziale, scena che celebra se stessa, che se la canta e se la suona fra ragazzi che sono “andati a scuola”. Poco importava che quel guardarsi la punta delle scarpe fosse un controllare i pedali delle chitarre, vista la cascata di riverberi ed effetti di quella musica, che aveva alfieri illustri (Cocteau Twins, My Bloody Valentine, Jesus & Mary Chain) e, con gli Slowdive e i Ride, avrebbe insegnato molto ai Radiohead e a tutta la scena post-rock. Dopo essersi sciolti nel 1985 e riformati nel 2014, gli Slowdive ritornano con uno dei migliori album del 2017, intitolato semplicemente Slowdive (****1/2). Il linguaggio è ancora quello, se possibile raffinato e levigato dal tempo e dai progressi tecnologici: lunghe cavalcate eteree e oniriche, strati sonori che convivono, una grande sapienza melodica. Se tutti i ritorni fossero così…
Marta Collica – Clandestine/ Inverno/ In this town/ Vero come te
Catanese residente a Berlino, Marta Collica in vent’anni di carriera ha collezionato collaborazioni importanti con John Parish (Pj Harvey) e Hugo Race (Nick Cave), dando vita a progetti ambiziosi come i Sepiatone, come il supergruppo Songs with Other Strangers (tra gli italiani, accanto a Parish, Race e Steve Wynn c’erano Manuel Agnelli, Cesare Basile e Rodrigo D’Erasmo) o ancora come il ciclo di reading sonorizzati di Raymond Carver a Parigi. Con l’album Inverno (***1/2) Marta Collica torna a riappropriarsi dell’italiano senza rinunciare all’inglese. Atmosfere notturne e ventose, flussi minimali di coscienza, folkblues all’insegna della discrezione rischiarato da piccoli lampi aciduli di psichedelia. Affascinante, come tutte le cose aliene alle nostre latitudini.
Musica Nuda – Canzone senza pretese/ Tu sei tutto per me/ Ti ruberò
Quattordici anni di attività per Musica Nuda, ovvero la voce agile e frizzante di Petra Magoni e il contrabbasso elegante di Ferruccio Spinetti, ex Avion Travel. Un sodalizio baciato dalla grazia, all’insegna di una rilettura jazzata ed emozionante delle mille canzoni che abbiamo amato e delle altre mille che abbiamo dimenticato. Nell’ultimo album, Leggera (****), l’arte della cover viene per un attimo ridimensionata (c’è soltanto la bellissima Ti ruberò di Bruno Lauzi) a favore di brani nuovi scritti dai due e da un manipolo di amici e complici (Peppe Servillo e Fausto Mesolella, Frankie Hi-Nrg Mc, Kaballà, Susanna Parigi) e del recupero di un inedito (Canzone senza pretese di Lelio Luttazzi). Musica leggera? Sì, ma scomodando Italo Calvino: «Bisogna prendere la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». Ottimo.
IL RECUPERO
John Cale – Do not gentle into that good night/ A child’s Christmas in Wales/ Fear (is a man’s best friend)/ Heartbreak Hotel/ Hallelujah/I’m waiting for the man
John Cale è un genio, punto. Nato nel Galles nel 1942 e cresciuto da una nonna che gli proibisce di parlare l’inglese fino a sette anni, musicista affascinato in ugual misura dal rock e dalla musica contemporanea (è allievo di Aaron Copland, collabora a lungo con Terry Riley e LaMonte Young, e nel 1963 poco più che ventenne prende parte con John Cage e altri a un’impresa che entra nel Guinness dei primati, la maratona pianistica lunga diciotto ore che esegue l’integrale delle Vexations di Erik Satie), diventa celebre creando assieme a Lou Reed, con la benedizione di Andy Warhol, uno dei gruppi più grandi e influenti della storia del rock, i Velvet Underground. Dura poco per Cale l’avventura Velvet: il tempo dei primi due album, poi l’egocentrismo di Lou Reed lo mette alla porta. Comincia una lunga e blasonata carriera di produttore (l’esordio folgorante di Stooges e Patti Smith, e poi ancora Nico, Nick Drake e Jonathan Richman) e un’altrettanto dignitosa carriera solista. John Cale, quando non fa parte di una band, è spinto da pulsioni contrastanti: di base è un interprete di buon carisma e di voce non irresistibile, con un songwriting colto e introverso, a volte cupo (mette in musica fra l’altro l’amato Dylan Thomas, qui lo trovate in Do not go gentle in that good night), che cede ogni tanto a folate di minimalismo o di pop, talvolta di dance, mentre in altre occasioni la fa da padrona una furente e abrasiva energia punk. Fragments of a rainy season (****1/2) è un live del 1992 che lo vede sul palco con l’accompagnamento di una chitarra e di un pianoforte. Un album nudo e intimo, di grande intensità, che rilegge alcune delle sue pagine migliori e offre una versione straniante di un classico di Elvis (Heartbreak Hotel) e una ur-cover da Leonard Cohen (Hallelujah) che influenzerà profondamente Jeff Buckley.
Paolo Jannacci – Comfort zone/ You must believe in spring/ Hard Playing/ Streets of New York
Niente discorsi sul “figlio di”, per favore. Perché Paolo Jannacci, nato nel 1972, è sì figlio del grande Enzo, ma anche ottimo musicista di suo. Sulla scena dal 1988 (è stato il curatore e il direttore artistico dei dischi e degli spettacoli del padre, al quale ha dedicato l’affettuosa biografia Aspettando al semaforo), Paolo è inoltre autore di colonne sonore e di canzoni, direttore d’orchestra, saltuariamente attore, insegnante, musicista che accompagna altri artisti (ieri gli 883, oggi J/Ax e Fedez). E soprattutto incisivo pianista jazz (ma suona anche il basso e la fisarmonica) che guida un trio e due quartetti. Dimostra la sua classe in Hard playing (****), che lo vede affiancato da Stefano Bagnoli alla batteria, Marco Ricci al contrabbasso e Daniele Moretto alla tromba. Resa sonora immediata e di grande piacevolezza, ma tanta apparente facilità non inganni e non distolga l’orecchio dalle notevoli complessità armoniche. Composizioni sue, bello l’omaggio a Bill Evans di You must believe in spring.
Kammerorchester Basel – La caduta di Gerusalemme sotto l’impero di Sedecia ultimo re d’Israelle/ Violin concerto in D minor III (Allegro-Largo)/ Tempesta di mare (Allegro e con spirito)
Prove di barocco a Bologna. Nel 1666 nasce l’Accademia Filarmonica, che ancora vive e lotta insieme a noi, forma giovani musicisti e organizza stagioni concertistiche. È all’origine una sorta di club-sindacato dei musicisti, che raccoglie «acciò avere filo et unione da non disunire e rendere buon suono». Tutti i grandi nomi della scuola barocca bolognese, che contende il primato alla veneziana, ne fanno parte, come suonatori (soprattutto violinisti, Bologna con un maestro come Giuseppe Torelli 1658-1709, sforna virtuosi e concertisti acclamati spesso fuori dai confini italiani) o come compositori: Giovanni Paolo Colonna 1637-1695 che dell’Accademia è uno dei fondatori e preferirà fare il maestro di cappella a San Petronio piuttosto che a San Pietro di Roma (l’Accademia aveva anche questa peculiarità: il privilegio pontificio di autorizzare i maestri di cappella, in pratica di governare il lavoro nelle chiese, un racket), Giacomo Antonio Perti 1661-1756, Giuseppe Matteo Alberti 1685-1751, Lorenzo Gaetano Zavateri 1690-1764, la numerosa e vivace famiglia dei Laurenti. In seguito, dal ‘700 al secolo breve, fare parte dell’Accademia bolognese è per i musicisti come essere ammessi nel più esclusivo dei club londinesi. Un giovanetto Mozart, nel 1770, viene aggregato dopo una prova di canto fermo non particolarmente brillante che viene corretta a suo favore da padre Martini. Qualche nome dei soci posteriori? Rossini, Puccini, Verdi, Wagner, Boito, Massenet, Saint Saens, Liszt, Brahms, Busoni e Respighi. Ai padri fondatori dell’Accademia Filarmonica, al loro barocco denso e virtuoso, ha dedicato un album di grande godibilità (Bologna 1666, ****) la Kammerorchester di Basilea. Da scoprire. E per dare un’idea della bravura dell’ensemble svizzero nel repertorio barocco (ma hanno un repertorio che spazia da Beethoven ai contemporanei), su Youtube potete vederli e ascoltarli alle prese con Vivaldi.