La musica che gira intorno/ 35

In Musica

Pop, rock, elettronica, folk, blues, soul, r&b, hip-hop, country, jazz, psichedelia, classica: i nuovi album, le ristampe, gli eventi musicali significativi

GLI APPUNTAMENTI
Sarà mica estate per niente. Grandi concerti (i Depeche Mode a San Siro martedì 27, con gli Algiers a fare da opening act, ma gli Algiers potete goderveli anche lunedì 26 al Santeria Social Club), artisti di culto (Devendra Banhart all’Auditorium della Fondazione Cariplo sabato 24), qualche scamorza (i Kings of Leon all’Ippodromo di San Siro mercoledì 21, uno dei tanti figli di Bob Marley, Damian, al Carroponte giovedì 22). Non vi basta? Ci sono The Cult (Alcatraz, lunedì 26), i Lemon Twigs dei fratelli D’Addario (Magnolia, martedì 27) e Halsey (Ippodromo di San Siro, ancora martedì 27). E, ancora, i festival: mentre prosegue, gratis in numerose piazze milanesi, la Festa della Musica, ci sono elettronica e ambiente al Terraforma di Villa Arconati (da venerdì 23 a domenica 25) e rock all’Arezzo Wave Love Festival (Parco Forlanini, venerdì 23 e sabato 24).





 

I DISCHI
Ginevra Di Marco – Fuoco a mare/ Luna tucumana/ Alfonsina y el mar/ Tutto cambia
La Negra era Mercedes Sosa (1935-2009), la più grande cantante che l’Argentina abbia mai conosciuto, un monumento nazionale nella lotta contro la dittatura militare e per i diritti umani. La Rubia è la fiorentina Ginevra Di Marco, già voce dei CSI e dei PGR. Schierata Ginevra, che da tempo ha intrapreso un percorso coerente di “nuova cantante popolare” (si ascolti il bellissimo Stazioni Lunari prende terra a Puerto Libre, ****, del 2006), come lo era Mercedes, appassionata l’italiana come l’argentina. Scrive Di Marco nel libretto che accompagna La Rubia canta la Negra (****1/2): «La sua voce mi portò a commuovermi vent’anni fa gettando il seme di un futuro possibile. Una specie di appuntamento con me stessa e con il destino». L’appuntamento è diventato, complice il compagno di vita e di musica Francesco Magnelli, questo intenso album che rivisita tredici delle canzoni più rappresentative di Mercedes Sosa, cantate in spagnolo e, alcune, in italiano: è il caso della bellissima Fuoco a mare e di Tutto cambia, che Nanni Moretti scelse per Habemus papam, ma anche della sensuale e orgogliosa Saintes Maries de la Mer. Ginevra si appropria del canto passionale di Mercedes Sosa rendendolo con fiera alterità, con sobria dolcezza e con timbro purissimo. Uno dei dischi più belli del 2017.


 

Ronnie Baker Brooks – Show me/ Doing too much/ Twine time/ Times have changed
Chitarrista e cantante blues di esuberante scuola chicagoana, Ronnie Baker Brooks, classe 1967, è figlio d’arte: suo padre è il leggendario Lonnie Brooks, che compare in Twine time, una delle tracce più elettrizzanti di questo Times have changed (***1/2). Per le restanti tracce l’album offre buon vecchio blues sporcato di soul e r&b, con qualche incursione hip-hop. Notevole la lista degli ospiti. Sono della partita, fra gli altri, il grande Steve Cropper già con Aretha Franklin, Otis Redding e Blues Brothers (Show me). E poi Al Kapone, Angie Stone, Felix Cavaliere e Bobby “Blue” Bland.



Sergio Beercock – Battle for attention/ Century/ The barley and the rye/ Jester
Figlio di una siciliana e di un inglese, nato a Kingston upon Hill nello Yorkshire, Sergio Beercock è uno strumentista sicuro e versatile (anche di strumenti insoliti come il banjolele e il charango) e un cantante dotato di una suggestiva voce acuta. Nell’album di debutto Wollow (***1/2), il giovane Beercock si fa guidare dall’eclettismo folk: tanta Inghilterra con l’eco di molti grandi (Tim Buckley, Bert Jansch, il primo John Martyn acustico) e qualche recupero della tradizione (The barley and the rye), qualche spruzzata di Mediterraneo e omaggi all’America Latina. Qui e là ancora un po’ acerbo ma molto promettente.


 

John Mellencamp – Indigo sunset/ What kind of man am I/ Early Bird Cafe/ My soul’s got wings
Rocker veemente e acclamato, convincente ibrido di Dylan e Rolling Stones, John Mellencamp, classe 1951 e 40 milioni di dischi venduti, si è nel nuovo millennio sempre più spostato verso una roots music impegnata, che al suo rock energico aggiunge, anche nella strumentazione, il blues e il country. Ne è una buona prova questo viscerale e onesto Sad clowns e hillbillies (***1/2), che in cinque brani vede la partecipazione di Carlene Carter. My soul’s got wings, che li vede duettare, è un testo di Woody Guthrie musicato da Mellencamp.


 

Tom Paxton – Boat in the water/ Life/ Christmas in shelter
Tom Paxton compie ottant’anni il prossimo 31 ottobre. Io l’ho incontrato per la prima volta da ragazzo, quasi mezzo secolo fa, in un’antologia di canzoni folk americane curata da Alessandro Portelli per la “Fenice” di Guanda, in cui il suo nome compariva (la canzone era, se non ricordo male, What did you learn in school today) accanto a quelli di Woody Guthrie, Leadbelly, Melvina Reynolds, Big Bill Broonzy e Peter LaFarge. C’era anche Bob Dylan? Questo non lo ricordo più, ricordo però che c’era Goodnight Irene. Questo per dire che Tom Paxton, onesto cantautore fieramente leftist, scrive canzoni e le incide da quasi sessant’anni, e che è stato ripreso da tanti (Dylan e la Faithfull, Joan Baez e Sandy Denny, John Denver e Willie Nelson, tra gli altri). Questo Boat in the water (***1/2) è il suo disco numero 63. Niente di nuovo forse, ma una voce senza incrinature e un’immutata freschezza compositiva. Una semplicità di altri tempi che fa piacere ritrovare.


Martin Simpson – My money never runs out/ John Hardy/ If I lose/ Bulldoze blues
Il titolo del disco, in realtà, è più lungo: Mr Martin Simpson & Mr Dom Flemons proudly present a selection of ever popular favourites (****). Metti un inglese e un americano assieme, a rivisitare un repertorio che ha fatto l’avanti e indietro da una sponda all’altra dell’Atlantico. Traditional inglesi diventati canzoni appalachiane, blues che hanno conosciuto nuova vita nel revival inglese. A fare l’impresa un veterano, l’inglese Martin Simpson (io lo ricordo in splendide prove accanto a June Tabor e Jessica Radcliffe), e un più giovane americano, Dom Flemins, già nei Carolina Chocolate Drops con cui ha vinto un Grammy nel 2010. Assai godibile, io ho privilegiato soprattutto il repertorio bluesy, si ascolti in particolare Bulldoze blues che ispirò ai Canned Heat la celebre Going up the country.

 

Giorgio Poi – L’abbronzatura/ Tubature/ Paracadute/ Le foto non me le fai mai
A volte, per trovarsi il nome d’arte, basta elidere una consonante. È accaduto così al nomade Giorgio Poti, nato a Novara e cresciuto a Lucca, romano adottivo residente da qualche anno a Londra, dove ha già militato in due gruppi, Vadoinmessico e Cairobi. Per l’esordio solista di Fa niente (***1/2), in sintonia con molto del neo-cantautorato giovane, Poti/Poi innesta un timbro di voce e soluzioni sonore assai poco italiane a una metrica e a una tematica abbastanza nostra e riconoscibile. Promettente, con le sue storie agrodolci.


 

Sebastiano Dessanay – Two fools/ Suite n. 1/ Duet n. 2/ Suite n. 2/ Our foolish hearts
Tra i nostri talenti all’estero contiamo anche Sebastiano Dessanay, jazzista cagliaritano che da anni risiede a Birmingham, dove insegna contrabbasso e teoria musicale presso il locale conservatorio. Musicista a suo agio con lo strumento tradizionale e con il doppio basso elettrico (ma suona anche il piano e il violoncello, oltre a essere un compositore premiato), Dessanay è autore e interprete di forte senso melodico e di saldo e compiuto controllo formale. Lo dimostra nel denso e omogeneo Duets of a fool (****), dieci improvvisazioni in duetto con altrettanti partner, incise a Birmingham, Cagliari e Grimbergen tra il 2011 e il 2015. Partner di Dessanay, nelle improvvisazioni che ho scelto, sono Sebastiano Meloni al piano, Rachel Cohen al sax alto, Francesco Morittu alla chitarra e Fulvio Sigurtà alla tromba. Su YouTube purtroppo Duets of a fool non c’è: rimedio con alcune esibizioni live di Dessanay.




 

Giovanni Falzone – Whole lotta love/ Friends/ Black dog intro/ Stairway to heaven
Dopo aver voltato in jazz Jimi Hendrix, il bravo trombettista siciliano Giovanni Falzone (ma vive a Milano, dove insegna al Conservatorio) si confronta adesso con il materiale dei primi quattro album dei Led Zeppelin. Non semplici cover in jazz, ma una lunga suite-tributo (Suite: Tribute to Led Zeppelin è infatti il titolo, ***1/2) dove linguaggi e idee, le sue e quelle dei rocker inglesi, si incrociano. Di grande suggestione la Contemporary Orchestra allestita da Falzone per l’occasione, che schiera una seconda tromba, un flauto, un trombone e un trombone basso, un fagotto e una chitarra, oltre ovviamente a basso e batteria.


 

Sergej Krylov esegue Paganini e Vivaldi
Gli ultimi due lavori di Sergej Krylov, i 24 Capricci di Paganini (*****) e Le quattro stagioni di Vivaldi (*****), stanno per me al vertice alle incisioni violinistiche di questa stagione. Assieme, se volete, al Rachmaninov di Gidon Kremer (Preghiera, ****1/2) e al Bach Bartok Boulez di Michael Barenboim (****). Nato a Mosca nel 1970 e residente nei pressi di Cremona (a Persico Dosino, per l’esattezza), già enfant prodige (prime lezioni di violino a cinque anni, primo concerto pubblico a sei, prima incisione a sedici), anche direttore della Lithuanian Chamber Orchestra e titolare della cattedra di violino al Conservatorio di Lugano, Krylov è per dirla con Mstislav Rostropovich, «uno dei più grandi talenti del nostro tempo». Sentire le sue sonorità smaltate e luminose, lo slancio e il vigore delle sue esecuzioni, la stupefacente tecnica che le sorregge, è un’esperienza d’ascolto molto appagante.


 

IL RECUPERO
Grateful Dead – St. Stephen/ Uncle John’s band/ Dark star/ China cat sunflower/ Fire on the mountain/ Morning dew
Cinquant’anni fa, a San Francisco il movimento hippie allestiva la “summer of love” e migliaia di giovani affluivano da tutto il mondo nella città californiana. Avversione alla guerra (e, per i più radicali, protesta attiva contro l’intervento americano in Vietnam), rivendicazione di uno spirito comunitario e antiautoritario, esplorazione di droghe per ”espandere la coscienza” (l’Lsd, che lo stato della California dichiara illegale già nel 1966), libero amore furono le bandiere di quella breve estate. Destinata a lasciare il segno soprattutto in musica, con i primi raduni di massa (il Monterey Pop Festival) e con l’esplosione del rock psichedelico di cui furono alfieri Jefferson Airplane e Grateful Dead. Questi ultimi in particolare, gruppo-comune senza leader (ma stava emergendo prepotente la personalità del chitarrista e cantante Jerry Garcia), si caratterizzarono per concerti torrenziali e free-form, in cui le canzoni proposte o coverizzate erano puro pretesto per lunghe cavalcate improvvisative che spesso duravano fin quasi a mezz’ora. Onnivori ed enciclopedici, leggendari come gruppo live (nel corso della loro lunga carriera hanno tenuto 2318 concerti, gli album dal vivo non si contano), già alla fine degli anni ’60 i Grateful avevano elaborato un suono unico che combinava folk, blues & country, alle origini di quel genere che oggi viene definito “Americana”. Alla loro storia è ora dedicato Long strange trip, un film di montaggio in sei parti firmato da Amir Bar-Lev, prodotto da Martin Scorsese e mandato in onda in America da Amazon Prime. La colonna sonora in due cd (****1/2) è una festa. Ancora più bello il triplo live Cornell 5/8/77 (*****): per giudizio unanime di critici e fan documenta il più entusiasmante dei loro concerti, con un suono perfetto e un Jerry Garcia in stato di grazia.





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