Pop, rock, progressive, iazz, folk, classica: i nuovi album, le ristampe, gli eventi musicali significativi
Enzo Jannacci, Trio Lescano, Pfm, Vittorio De Sica & c. scelti da Antonella Ruggiero
Antonella Ruggiero, inarrivabile voce dei Matia Bazar e dal 1996 solista raffinata, ha deciso di erigersi un monumento: il cofanetto di Quando facevo la cantante (sei album, 102 canzoni, **** preventivo) che uscirà il 1° dicembre. I capitoli sono dedicati – Antonella Ruggiero lo racconta a Laura Zangarini di La Lettura – alle orchestre, alla canzone dialettale e popolare, al pop, alle canzoni dal mondo, al sacro e alle stranezze. Accompagna l’articolo una playlist che delinea – la saccheggio scegliendo le canzoni a me più congeniali – la top ten della canzone italiana secondo lei: Jannacci e Trio Lescano, Pfm e Guccini, Caparezza e De Sica, Dionne Warwick e Area, New Trolls e Tenco. Io ho aggiunto i Matia Bazar.
Francesco Guccini – Eskimo/ La locomotiva/ Canzone di notte n. 2/ Noi non ci saremo/ Dio è morto/ Auschwitz/ L’atomica cinese/ Primavera di Praga
C’è anche Francesco Guccini (*****) nel Pantheon di Antonella Ruggiero: Auschwitz, che è del 1965 e fu portata al successo dall’Equipe 84. Prima di esordire giusto cinquant’anni fa con Folk beat n. 1, il giovane Guccini aveva scritto anche un pugno di canzoni per i Nomadi che fecero scalpore: Dio è morto, Noi non ci saremo, Per fare un uomo. Nel numero di ottobre del mensile Millennium, al quale ho lavorato e che è dedicato al ’68, Guccini rievoca quegli anni e io provo qui a rievocare la sua produzione “politica” di allora. Da qualche anno Guccini si è ritirato dalle scene: non canta e non incide più. Però continua a scrivere: il suo ultimo noir a quattro mani con Loriano Macchiavelli, Tempo da elfi (Giunti), rimanda un po’ anche a quegli anni, a quelle utopie.
Gian Piero Alloisio – Dovevo fare del cinema/ Marilyn/ Ogni vita è grande/ Venezia/ Parole/ La strana famiglia
Una ciliegia tira l’altra, e Francesco Guccini porta a Gian Piero Alloisio (****). Nato a Ovada nel 1956 e trapiantato a Genova, animatore dell’Assemblea Musicale Teatrale negli anni ’70-’80 e poi cantautore, Alloisio è uno dei segreti meglio custoditi della nostra musica. Nel senso che ha scritto canzoni bellissime e fortunate, portate al successo da altri, e pochi sanno che sono sue. Per esempio quel capolavoro struggente che è Venezia, incisa appunto da Guccini (che di Alloisio ha registrato anche Gulliver, Parole e Dovevo fare del cinema). Per esempio il testo beffardo, più e più volte aggiornato, di La strana famiglia, incisa da Enzo Jannacci e Giorgio Gaber. Il mio amico Giorgio Gaber, scritto da Alloisio e pubblicato proprio adesso dalla Utet, racconta questa e altre storie rievocando il sodalizio (soprattutto notturno) con il signor G. Un libro da leggere, un autore da scoprire o da riscoprire.
Sergio Endrigo – Canzone per te/ La ballata dell’ex/ La guerra/ Via Broletto 34/ La rosa bianca/ La brava gente/ Il soldato di Napoleone/ Anch’io ti ricorderò
Canzoni che portano ad altre canzoni, libri che portano ad altri libri. Claudia Endrigo ha scritto per Feltrinelli il bellissimo Sergio Endrigo, mio padre. Artista per caso, che è in libreria a partire da questo giovedì. Artista grandissimo, Endrigo (*****). Centrale nella straordinaria leva cantautoriale degli anni ’60. «Il più francese, largo e profondo dei nostri cantautori» lo definisce Gianni Mura, e ha ragione. Profugo giuliano cresciuto nei convitti caserma del dopoguerra (era nato a Pola nel 1933), fattorino e addetto agli ascensori nei grandi alberghi a Venezia, cantante da night poi spinto da Nanni Ricordi a scrivere canzoni sue (centra subito il bersaglio con Io che amo solo te e La brava gente). Vince a Sanremo nel 1968 (la bellissima Canzone per te) ma, anche se ha successo, è tutt’altro che un artista commerciale. Nelle sue canzoni, oltre a un amore adulto che fa piazza pulita dei cliché, ci sono l’antimilitarismo (La guerra, in quegli anni la cantano anche i Gufi), la Resistenza (La ballata dell’ex), i versi giovanili di Pasolini (Il soldato di Napoleone), il cubano José Martì (La rosa bianca), il Brasile di Vinicius de Moraes, Che Guevara (Anch’io ti ricorderò). Negli ultimi vent’anni della sua vita, da metà degli ’80, il successo di Endrigo evapora: colpa della cattiva salute (ha un acufene che gli impedisce di esibirsi, i suoi dischi sempre belli sono mal distribuiti e quasi non arrivano al pubblico), colpa di una fama di iettatore che gli è stata cucita addosso dalle caricature stupide e crudeli del piduista Alighiero Noschese (la stessa fama stroncherà la carriera e la vita della grande Mia Martini). A farlo riscoprire hanno provveduto, negli anni scorsi, Franco Battiato e i tanti altri che hanno reinciso più di una sua canzone. Ora arriva, meritorio, questo libro.
Barbara – Chapeau bas/ Attendons que ma joie revienne/ Nantes/ Le mal de vivre/ Gottingen/ La solitude/ Ma plus belle histoire d’amour/ Sans bagages
Parigi celebra, a vent’anni dalla morte, la meravigliosa Barbara, «la prima donna in Francia a scrivere canzoni» ricorda la curatrice Clémentine Deroudille, con una grande mostra alla Philharmonie de Paris (13 ottobre-28 gennaio), mentre nelle sale cinematografiche arriva Barbara, il film che le ha dedicato Mathieu Amalric. Capelli corti e abito di scena nero fin dagli esordi negli anni ’50 («Il nero è il colore della festa, della sera, della notte, della dignità, della seduzione. Anche del dolore, certo»), Barbara è Monique Serf, figlia di un ebreo alsaziano e di un’ebrea russa. Nata nel 1930 a Parigi, dovrà nascondersi dalle retate naziste assieme alla famiglia e quella famiglia abbandonerà molto giovane, per fuggire dagli abusi sessuali del padre (a lui, morto senza averla rivista, è dedicata Nantes, canzone di strazio che ha richiesto cinque anni, dal 1959 al 1963, per essere scritta). Cameriera in un locale gestito da Jacques Prévert, cantante lanciata da Georges Brassens, esordirà nel 1957, per qualche anno farà coppia fissa con Jacques Brel e, a partire dagli anni ’60, conoscerà una popolarità duratura e ininterrotta diventando, con il suo recitar cantando intenso e tragico, un’icona venerata in Francia. Morirà, nel 1997, per un’intossicazione alimentare: funghi scongelati e ricongelati troppe volte. In realtà, lasciano intendere i biografi, per troppi farmaci e troppa vita. La grandezza di Barbara risiede nella sua arte, nella sua scrittura, nella sua voce. Ma anche nella sua vita: nell’essere riuscita a mutare di polarità il male subito, trasformandolo in bene. «Barbara era buffa» dice Clémentine Deroudille. «I suoi amici ricordano soltanto risate, amore e attenzioni. Era stata così sfortunata, da giovane, che da adulta tutto quel che le accadeva era per forza di cose bellissimo». Tra gioie e malinconie, mal di vivere e belle storie d’amore, ce n’è più di una traccia in queste canzoni che incantano e seducono. Io ho particolarmente cara una delle sue prime, Sans bagages. Provate voi a scrivere versi incantatori come «Il y a tant et tant de temps que je t’attends», che si sciolgono in bocca come uno scioglilingua.
IL JAZZ
Tony Allen – On fire/ Ewajo/ Life is beautiful/ Who’re you?
Se non è jazz questo, che cos’è? Tony Allen è una leggenda vivente della batteria. Nigeriano di Lagos, classe 1940, è stato il drummer dal 1979 al 1989 degli Africa 70 di Fela Anikulapo Kuti, la più esplosiva delle formazioni afrobeat. Ha poi lavorato con i grandi della musica africana (King Sunny Adé, Manu Dibango, Ray Lema), con Charlotte Gainsbourg, con l’elettronica di culto (Air, Danger Mouse), con il supergruppo The Good, The Bad & The Queen che vedeva assieme l’ex Blur Damon Albarn, l’ex Clash Paul Simonon e l’ex Verve Simon Tong. Ora, all’alba dei 77 anni, pubblica per Blue Note The source (****) dove, assecondato da un gruppo parigino diretto da Yann Jiankielewicz, sposa la lezione bop e hard bop (Art Blakey è uno dei numi ispiratori del disco) con echi e suggestioni tra l’Africa e Miles Davis. Ho scelto tre brani, più uno degli Africa 70, per farvi capire da dove arrivi questo sciamano dei tamburi.
LA CLASSICA
Youri Egorov interpreta Chopin
Jan Brokken è uno scrittore olandese che ho imparato ad amare negli ultimi anni. Assieme ad Anime baltiche (2010), su un lembo cruciale e spesso trascurato dell’Europa, e assieme al Giardino dei cosacchi (2016), su Fjodor Dostoevskij davanti al plotone d’esecuzione, graziato in extremis ed esiliato in Siberia, ha scritto il folgorante ed empatico Nella casa del pianista (2011, Iperborea, come tutti gli altri suoi libri). L’ho letto questa estate e ho fatto posto fra i miei intimi al pianista russo Youri Egorov (1954-1988), enfant prodige sovietico e presto espatriato, come Rudolf Nureyev, perché omosessuale. Naturalizzato olandese, Egorov vivrà la sua breve stagione di irregolare di genio nei concorsi pianistici internazionali (troppo poco compassato, con troppo fuoco per imporsi; troppo bravo per non avere menzioni speciali), di concertista acclamato, di innovatore irruento ma misuratissimo in molte pagine che interpreta (Chopin e Debussy soprattutto), di anima libera ma straziata dalla nostalgia per la patria abbandonata, come se la felicità o anche solo la serenità fossero un labile e ingannevole approdo. Morirà giovane, Egorov, a 34 anni, di Aids. Lasciando a noi l’interrogativo lancinante se sia preferibile essere acclamati o essere amati.