Pop, rock, blues, folk, jazz, classica: i nuovi album, le ristampe, gli eventi musicali significativi
L’APPUNTAMENTO
Giovedì 11 gennaio, ore 21, al Santeria Social Club,concerto del cantautore Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce.
POP & ROCK
Sonny Landreth – Blues attack/ Key to the highway/ A world away/ The U. S. S. Zydecoldsmobile/ Back to Bayou teche/ The milky way home/ Uberesso
Sonny Landreth, mago della chitarra slide, l’ho ascoltato per la prima volta in un album di John Hiatt, Slow turning, ed è stata subito folgorazione. Da sempre innamorato di Ry Cooder, ho trovato in Landreth, nato nel Mississippi e cresciuto in Louisiana, lo stesso virtuosismo e lo stesso amore per il blues e per le contaminazioni. In pista dagli inizi dei ’70 e meno noto di quanto meriterebbe (per Eric Clapton è ai vertici del chitarrismo rock), Landreth ha lavorato, oltre che con Hiatt e con Clapton, con Clifton Chenier, Jimmy Buffett e Mark Knopfler. Nel doppio Recorded live in Lafayette (****1/2) lo si ascolta in una serata in stato di grazia, assecondato da una band dalle forti venature zydeco e cajun, passare in rassegna i pezzi pregiati del suo repertorio e alcuni classici del blues.
Bob Seger – Busload of faith/ I knew you when/ Runaway train/ Democracy/ Glenn song
A 73 anni Bob Seger, famoso soprattutto negli anni ’70 e ’80 per il suo blue collar rock che rivaleggiava con quello di Bruce Springsteen, continua a incidere regolarmente ma dilatando i tempi. E questo I knew you when (***1/2), che esce a tre anni di distanza dal precedente Ride out, pesca con generosità, nelle tredici tracce dell’edizione deluxe, dal repertorio precedente. Così, Runaway train è del 1993, I knew you when del 1997. Nuova è invece Glenn song dedicata all’amico Glenn Frey degli Eagles, scomparso di recente. Ballad pianistiche e rock classico si alternano, con il bonus di due cover: Busload of faith di Lou Reed (era nell’album New York) e Democracy di Leonard Cohen. Un lavoro onesto e solido,ma senza particolari impennate.
Peter Case – Spell of wheels/ On the way downtown/ Until the next time/ Beyond the blues/ Entella Hotel
Mi sono innamorato di Peter Case nel 1989, quasi trent’anni fa. Me lo fece conoscere Gene Gnocchi, comico raffinato, scrittore di distillate prose e grande cultore di musiche sotto traccia. Avevo finito di intervistarlo e mi disse: «Dai, la settimana prossima andiamo a sentire Peter Case». Io non sapevo chi fosse, Gnocchi conosceva il leader artsy pop dei Plimsouls, nessuno di noi era preparato all’eroe folk geneticamente modificato del bellissimo The man with the blue post-modern fragmented neo-traditionalist guitar, proprio di quell’anno, dove sua maestà Ry Cooder alla chitarra stereofonica gli dava manforte nell’incantatorio Entella Hotel. Poi arrivarono nel 1992 il rock deragliato e vicino fino a un certo punto alla tradizione di Six pack of love (c’era fra le altre la stupenda Beyond the blue che ritorna qui,scritta a sei mani con Tom Russell e Bob Neuwirth), e nel 1994 il Sings like hell della svolta definitiva, il folk di chi era stato new wave, come il figurativo di un Picasso maturo che non scordava di essere stato cubista. Questo per dire che ho seguito Case in tutte le sue belle e ostinate prove soliste, e che lo trovo voce splendida, strumentista di scarna passionalità e autore emozionante nel live On the way downtown (****), registrato fra il 1998 e il 2000 per la trasmissione radiofonica FolkScene (Dio benedica le radio). Tutto da scoprire, io sento questo album crescere a ogni ascolto e sarei pronto a giurare che, se non è il suo capolavoro, ci va molto vicino.
Renzo Arbore – Non sparate sul pianista/ Conosci mia cugina?/ Tu vecchia mutanda tu/ Notte e dì/ Non partir/ Smorz’e llights/ N’accordo in fa
Renzo Arbore è un monumento nazionale, lo dico convinto e affezionato, cercando di restare serio. Evitando di esibire le sue benemerenze radiofoniche e televisive, degne di più di una Legion d’Onore, mi concentrerò sul musicista. Che fa del dilettantismo (falso ma goliardicamente esibito) e del tu vuo’ fa l’americano la sua cifra personale fin dal 1986 (Il clarinetto, seconda a Sanremo con doppisensi soavemente espliciti, lui può) e nel 1991, con l’Orchestra Italiana, lancia la sua Italia innamorata dell’America come prima di lui Nando Moriconi e Renato Carosone. L’Arbore erede della rivista e del varietà, delle sue sorridenti oscenità, dello swing all’italiana (Trio Lescano, Bonino, Rabagliati) sciocchino ma tanto più vitale dell’ammosciante melodrammaticità belcantistica. Della scuola del night che negli anni ’50 (Carosone, Buscaglione, Van Wood) resisteva ai vecchi scarponi, alle avvinte come l’edera, ai grazie dei fior. Si aggiunga la lezione americana (il dixieland, il mainstream tutto lustrini di Elvis non più The Pelvis) e un’ammiccante ma ferrea bonomia autoironica, e si avrà una miscela oggi retrò ma che è stata resistenza civile alla melassa sonora da parrocchietta, che il triplo Arbore Plus (****?, ma sì) rende alla perfezione. Le orchestre da ballo postmodern, da Giuliano Palma a Paolo Belli, vengono tutte da qui.
Cristina D’Avena – Pollon, Pollon combinaguai/ Nanà supergirl/ Occhi di gatto/ Mila e Shiro/ Siamo fatti così
Paracula e irresistibile, l’operazione di far cantare Cristina D’Avena, sempiterna regina delle sigle tv per bambini anni’ 90, con i divi e divetti dei talent-show, siano essi concorrenti emersi da tempo (Giusy Ferreri, Francesca Michielin, Emma, Noemi) o giudici (J-Ax, Loredana Berté, Arisa, Elio), è più che godibile. E benché io sia della leva di 44 gatti, del Pulcino ballerino e di Carissimo Pinocchio – da ragazzo, faccio outing e autocritica, ne conoscevo anche la parodia omofoba – ho fatto in tempo, da padre non del tutto distratto, a incrociare anche Pollon combinaguai, la magica magica Emi, Licia tutta da baciare e Mila e Shiro due cuori nella pallavolo. Ritrovarli, questi plasticosi eroi di quasi trent’anni fa, con arrangiamenti trap o reggaeton in Duets-Tutti cantano Cristina (***1/2), è una bella macchina del tempo. Resa più efficiente dal fatto che tutti i duettanti complici prendono queste canzoni molto sul serio, senza degnazioni o pose di sufficienza. Da veri fan.
Psicantria – Neuropsicantria infantile/ Maternity blues/ Il babbone pasticcione/ Il dispetto delle regole/ Orco zio
Didattica della canzone, fra lo Zecchino d’Oro e Gianni Rodari, fra l’uomo che scambiò sua moglie per un cappello e lo zumpapà delle festine di fine anno o da oratorio, ma non è un giudizio negativo. Insomma, spiazzante è spiazzante, in alcune canzoni istruttivo, in altre (Orco zio) nobile ma troppo carico, nelle rare canzoni solo per i bambini (Dario il veterinario, Il babbone pasticcione) irresistibile. Stiamo parlando di Neuropsicantria infantile (***1/2), concept album di Gaspare Palmieri e Christian Grassilli, psichiatra e psicoterapeuta con il pallino del cantautore. Da scoprire, da ascoltare.
MUSICHE RITROVATE
R.E.M.– Drive/ Try not to breathe/ Everybody hurts/ Ignoreland/ Nightswimming/ Drive/ Me in honey/ Love is all around/ Funtime/ Eastern 983111/ Photograph/ Devil rides backwards
Una deluxe edition oggi non si nega quasi a nessuno, e quasi tutti gli anniversari fanno buono: i cinquant’anni ma anche i dieci o i quattordici. Che si fa? Si prende l’album originale e lo si rimasterizza, si aggiungono un album dal vivo e uno di prove e il gioco è fatto. Funziona così, ma in questo caso ci guadagna, anche il meraviglioso Automatic for the people, ***** – il titolo era lo slogan di una tavola calda in quel di Athens, Georgia, patria e tana dei R.E.M. – che uscì nel 1992 a un anno di distanza dal fortunatissimo Out of time e ne bissò il successo vendendo, come quello, 18 milioni di copie. Disco epocale, in bilico fra il rock tintinnante degli esordi e qualche non fuggevole tentazione di nuova musica da camera (alle orchestrazioni c’era John Paul Jones dei Led Zeppelin), con gioielli intarsiati e melodie riflessive come Drive che parla a una generazione senza maestri né guru, inviti a tenere duro contro le voglie di autodistruzione (la bellissima Everybody hurts), rimpianti lancinanti per le nuotate notturne e la libertà adolescente (Nightswimming), attori finiti male (il Montgomery Clift di Monty’s got a raw deal) o fuori di melone (lo stralunato comico Andy Kaufman di Man on the moon che ispirerà Milos Forman). Fino all’impennata furente di Ignoreland, il paese degli ignoranti, contro gli stolti che si fidano della tv e votano Bush, e contro i repubblicani, i «bastardi che hanno preso il potere dalle vittime degli anni “Usa contro il resto del mondo”, rovinando tutto quel che era giusto e vero». In più, l’edizione deluxe offre un live del 1992 per Greenpeace già spiluzzicato nel corso degli anni ma mai proposto per intero, al 40 Watt Club di Athens: versioni grintose e quasi funk dei pezzi dell’album (si ascolti Drive), riprese del repertorio recente (Losing my religion e Me in honey) e due tenere cover: Love is all around dei Troggs e Funtime di Iggy Pop. Bello, ma il terzo cd con i demo dell’album e con numerosi inediti, abbozzi e scarti spiega meglio di mille articoli come lavorassero i R.E.M., tra quale abbondanza di materiale scegliessero la scaletta definitiva dei loro dischi.
JAZZ
DeJohnette, Scofield & c. – Woodstock/ A hard rain’s a-gonna fall/ Song for world forgiveness/ Dirty ground
La vallata dello Hudson, nello stato di New York. L’eco della natura, l’eco delle storie – anche musicali – che i luoghi portano con sé, la Grande Mela distante come la luna. Nella HudsonValley vivono, poco distanti tra loro, il leggendario chitarrista John Scofield e l’altrettanto leggendario batterista Jack DeJohnette (Miles Davis, Keith Jarrett), assieme al pianista e tastierista John Medeski (Martin, Medeski e Wood) e al bassista Larry Grenadier (Brad Mehldau, Pat Metheny). In Hudson (****) questo inedito supergruppo rilegge pagine celebri che aleggiano nell’aria (Lay lady lay e A hard rain’s a-gonna fall di Bob Dylan, Woodstock di Joni Mitchell, Wait until tomorrow di Jimi Hendrix, Up on Cripple Creek della Band), trasforma in gospel Dirty ground di Bruce Hornsby, rende omaggio ai nativi in Great spiriti peace chant e si lancia in cavalcate aguzze e monolitiche (l’iniziale Hudson) o di complesso e fascinoso interplay (Song for world forgiveness, forse il vertice dell’album con la dylaniana Hard rain). Suggestivi il melodismo di Scofield, il sottile e rigoroso pulsare di DeJohnette (si ascolti il confronto basso-batteria in Tony then Jack) e i contrappunti di Medeski. Un rilassato album pastorale, in qualche modo indebitato con gli Standards di Jarrett.
CLASSICA
Yekwon Sunwoo esegue Ravel e Rachmaninov
Applausi alla Corea del Sud, da anni vivaio di esecutori e cantanti di spicco. L’ultima rivelazione è il ventottenne pianista Yekwon Sunwoo, fresco vincitore del quindicesimo concorso pianistico internazionale Van Cliburn di Fort Worth, Texas. Intitolato al celebre pianista americano che nel 1958, in piena guerra fredda, divenne un eroe per i suoi compatrioti trionfando nella tana del lupo, a Mosca, al primo Concorso Ciajkovskij, il premio texano ha solidissima reputazione, selezione feroce (140 ammessi e 30 finalisti), ampio pubblico (1200 spettatori in sala, cinque milioni in streaming video) e generose ricompense (50mila dollari, un contratto discografico con la Universal e ingaggi per tre anni). Ed eccolo il primo disco di Sunwoo, questo Cliburn Gold (****) registrato dal vivo nelle finali del premio, che lo vede trascinante e quasi dotato di quattro mani in La Valse di Ravel e ardimentoso nella Seconda sonata di Rachmaninov che di solito scoraggia e intiepidisce anche pianisti più scafati di lui. In programma anche Hamelin, Richard Strauss, Haydn e Schubert.