“La natura esposta” di Erri De Luca è un romanzo di frammenti, di immagini, di dialoghi dalla forza simbolica che fanno parte di un tutto vivente.
“La terra è un organismo vivente, questa e tutta la fede che posso”.
La Natura Esposta è un racconto teologico. È una storia che va assaporata piano, con l’attenzione che si impiegherebbe nel mangiare una zuppa di pesce. Oppure la si può attraversare con la cautela di chi prende un sentiero di montagna: a passo lento si intuisce ciò che l’autore intende per sacro.
È un romanzo di frammenti, di immagini, di dialoghi dalla forza simbolica che fanno parte di un tutto vivente.
Incomincia con i ciottoli tolti dal greto di un ruscello di montagna, “sillabari” di materia che il protagonista-narratore vende per pochi soldi ai turisti. Questo è un uomo intagliato nel legno, è scultore e scalatore, condivide i pensieri con un fratello gemello, morto all’età di sei anni. Abita un piccolo villaggio di montagna in cui vige una legge antica di mutua protezione. È un villaggio di confine, o meglio, di soglia, perché in fondo le montagne più che da barriere fungono da ponti tra un al di qua e un al di là.
Il protagonista è uno dei pochi a conoscere i sentieri e condivide gratuitamente la sua esperienza con stranieri spaesati o migranti privati di un paese che vogliono tentare l’attraversamento del passo. È proprio a causa della sua empatia e della sua modestia che si scontrerà con i compagni di una vita e dovrà allontanarsi dal paese per sperimentare un altro tipo di immedesimazione, forse ancora più universale.
La geografia cambia e il narratore si trova in una città di mare, caotica e affollata ma della quale imapara fin da subito a seguire il ritmo. Pronto a intagliare un nuovo pezzo della sua vita, si imbatte, un po’ per destino, un po’ per necessità, nel delicato incarico di restauro di un crocefisso di marmo bianco. La sua missione sarà quella di rimuovere un panneggio che la Chiesa, anni prima, per pudore, o forse per compassione, aveva applicato a copertura della natura esposta di Cristo. Pur non considerandosi un artista ma soltanto un artefice, egli accetta l’incarico di ricostruire la statua nella sua parte forse più sacra, perché più indifesa e umana. La parte in cui la vita combatte la morte in maniera più tenace.
Il lavoro richiede sudore e brividi, occhi e tatto.
Inizia per il protagonista un duplice processo di immedesimazione: dapprima egli si cala nelle condizioni di lavoro dello scultore che lo aveva preceduto, un giovane artista del primo 900 chiamato a realizzare l’arduo lavoro di un nudo sacro e morto poco più tardi in montagna. Egli si prende l’incarico del suo progetto e, al contempo, della sua devozione. Di qui, prende il via una vera e propria Imitatio Christi che passa attraverso la fisicità di quel marmo che, a tratti, sembra quasi farsi carne. C’è la volontà di comprendere dall’interno la passione e il patimento di quella statua così fredda ma contemporaneamente così viva.
L’empatia non viene sperimentata solamente entro i confini dello studio dello scultore, ma li oltrepassa. Essa pervade la città intera. Se ne possono seguire le tracce nei piccoli gesti di accoglienza scambiati tra persone sconosciute: un caffè offerto, una ciotola di zuppa condivisa, un pezzo di marmo donato, una storia di vita raccontata da un estraneo.
La solidarietà arriva a superare anche il confine della diversità religiosa. Si dimenticano i dogmatismi e gli integralismi. Un prete, un operaio musulmano e un rabbino: tre religioni diverse con cui il protagonista, in pochi mesi, entra in contatto; tre persone pronte a rendersi utili e a condividere, ognuna a suo modo, una parte del proprio credo con un uomo il cui unico mistero di fede era sempre stato soltanto quello custodito dalle montagne.
Ovviamente non è per tutti questo sentimento. Nel romanzo c’è infatti posto anche per l’inganno, per l’attentato alla vita e per la violenza, che raggiunge il suo culmine nella penosa e brutale nudità del crocefisso. E poi c’è anche posto per un amore passato e, forse, rimpianto dal protagonista, e per un amore presente, azzardato, senza un inizio e senza una fine definita.
Con La Natura esposta Erri De Luca modella con delicatezza un tema profondo quanto solo può esserlo quello della fede. Con estrema leggerezza, l’autore riesce a plasmare le parole, intagliare le metafore, scolpire i dialoghi, facendosi “artefice” proprio come il protagonista del suo racconto.
L’intero romanzo può essere letto come un attraversamento, come un avvicinamento all’altro. L’empatia e la solidarietà di cui ci parla l’autore sono un attraversamento. Sono queste infatti le qualità umane che ci permettono di valicare i confini e scavalcare le differenze. Andare oltre gli stereotipi e le definizioni manichee. Il pregiudizio, che spesso la società stessa ci impone, crolla di fronte all’arte di creare ponti del protagonista: egli non prova esitazione quando si tratta di farsi guida a un gruppo di estranei su un ripido sentiero di montagna, non esita nemmeno nel momento in cui fiuta il pericolo e percepisce il potenziale inganno. Non esita a condividere la sua tavola con anime sconosciute o ad accettare consigli da chi ha vissuto le proprie vite passate in luoghi troppo lontani anche solo da immaginare. Sono proprio queste le qualità umane che dovrebbero derivare dalla fede, una fede che non alza barriere ma le abbatte. Attraverso questo racconto, l’autore ci conduce in un territorio di soglia, in cui il sacro si confonde con ciò che di solito è etichettato come profano.
Prende vita un senso nuovo di sacralità, in cui l’umanità non è esorcizzata ma è evidenziata e costituisce il senso profondo di tutto ciò in cui la vita scalpita. In questa zona d’ombra, salmastra, in questo territorio di nessuno, si sperimenta il vero credo. Qui non ci sono confini o esclusioni, come non ce ne sono nel regno dei cieli dove le nuvole sono anarchiche e la sabbia del deserto viene portata dal vento senza dover passare da alcuna dogana.