Gli Stati Uniti voltano pagina con Biden e Harris. Se c’è una cartina di tornasole di questa presidenza, se c’è una questione che condensa tutte le altre questa è la giustizia. Qui si discute di massa incarceration e dei suoi pesantissimi numeri, di neuroscienze che chiariscono i nessi tra carcere e diseguaglianze, di razzismo sistemico, di politiche penali repressive e del ruolo che hanno avuto i democratici, del passato da pubblica accusatrice di Kamala Harris e della sua evoluzione verso posizioni progressiste. E, infine, del bisogno di ricomporre la memoria malata della nazione, così lacerata dopo la presidenza Trump, nel segno della verità e della riconciliazione
Negli Stati Uniti, il tema della giustizia e della sua riforma interseca come pochi altri il passato, il presente e il futuro del Paese. Come un mantra, il termine giustizia ha dominato la campagna elettorale e scandito le battaglie durante la presidenza Trump. Giustizia è stata invocata durante la torrida estate pandemica 2020 nell’ondata di manifestazioni in risposta agli episodi di police violence ai danni di afro-americani. Il tragico epilogo della transizione dei poteri verso la nuova amministrazione ha condotto a chiedere giustizia per l’insurrezione al Congresso il 6 gennaio 2021, innescando il secondo procedimento di impeachment a carico di Donald Trump per determinare le sue responsabilità.
Mai come nell’ultimo quadriennio, gli Stati Uniti hanno dovuto fare i conti con discriminazione, disuguaglianza, sperequazione e divisione. Giustizia viene invocata con riferito all’eredità mai lenita del passato segregazionista e schiavista; al presente mai efficacemente affrontato del razzismo sistemico di cui il sistema penale è visto come strumento d’implementazione; al presente della polarizzazione politica in cui il ruolo lugubre dei social media ha svelato la natura eversiva; alle conseguenze della profonda crisi economico-sanitaria innescate dal Covid 19..
Joseph R. Biden Jr., 46emo Presidente degli Stati Uniti, durante il discorso di chiusura della cerimonia di giuramento, ha ricorsivamente usato la parola “giustizia” indicando racial and social justice come obbiettivi primari della sua amministrazione. Kamala Harris, prima donna a ricoprire il ruolo di vicepresidente, incarna iconicamente la promessa americana di inclusione. Nata a Oakland-California da padre giamaicano e madre indiana, Kamala Harris segna il punto di non ritorno per le istanze che lottano contro discriminazione di genere ed esclusione etno-razziale.
Giustizia penale e mass incarceration. Il tema della giustizia si declina in molteplici pulsioni di cambiamento. Tuttavia, il nodo della giustizia penale e della repressione penitenziaria ipertrofica rimane l’emergenza primaria che non può essere oltremodo rimandata. Sebbene dal 2009 si registrino timidi segnali di controtendenza, il sistema di repressione penale appare fuori controllo. Gli Stati Uniti, nel 2020, contano 1.291.000 detenuti nei 1.833 penitenziari statali, 631.000 nelle prigioni locali amministrate dalle Contee, 226.000 nei 110 istituti di pena Federali. A questa popolazione debbono aggiungersi circa 52.000 minori confinati nei sistemi statali di Juvenile Justice, e 42.000 detenuti nelle Immigration Detention Facilities.
Il sistema della mass incarceration ha numeri mozzafiato: 2.3 milioni di detenuti; 4.9 milioni di ex-detenuti; 19 milioni di cittadini che hanno scontato almeno una detenzione per Felony (ovvero un reato grave); 77 milioni hanno una traccia nella fedina penale; 113 milioni hanno almeno un membro familiare che è stato detenuto nei penitenziari statali o federali. Il sistema carcerario risulta poi essere solo una porzione del sistema del controllo penale: 3.6 milioni di americani sono soggetti al regime di Probation (misure alternative al carcere) e 840.000 godono del regime di Parole (libertà condizionata). Anche se calcoli precisi sono ardui, si stima che nel 2015 siano stati spesi 87 miliardi di dollari per assicurare l’amministrazione del sistema repressivo.
Giuristi, criminologi e attivisti indicano i fattori all’origine di tale ipertrofia: legislazioni penali radicalmente retributive, criminalizzazione dell’utilizzo di sostanze, meccanismi della procedura penale accusatoria, costi della difesa processuale. A questi vanno associate endemiche dinamiche socio-economiche che favoriscono la devianza: esclusione da sanità, educazione e servizi sociali per milioni di americani prevalentemente appartenenti alle minoranze etnorazziali.
L’impatto delle neuroscienze. Oggi, con lo sviluppo di discipline nate dall’incontro tra le neuroscienze e il diritto, emergono nuove evidenze. Come brillantemente analizzato dal neuro-scienziato Robert Sapolsky in Behave, i fattori socio-ambientali, l’esposizione alla violenza e le strutture culturali determinano in modo preponderante i comportamenti individuali. Se la dinamica è nota da decenni, oggi le neuroscienze forniscono prove circa l’impatto neuroanatomico e neurofisiologico di traumi e privazioni. Con buona pace di ermeneutiche più datate, le azioni, in ultimo, sono generate da quel sistema ad altissima complessità che chiamiamo cervello. La struttura neurocognitiva è vulnerabile sia a fattori endogeni quali malattie e diversità di neurosviluppo (Cognitive Diversity), che a fattori esogeni come le variabili socio-ambientali. La sua dimensione plastica fa sì che i comportamenti si correlino strettamente agli ambienti di vita, crescita, relazione. La devianza è quindi anche una responsabilità collettiva.
In un panorama di emergenza detentiva, e nella frammentata galassia dei molteplici interventi a contenerla, gli Stati Uniti contano sperimentazioni altamente innovative che incorporano nuove conoscenze medico-scientifiche. A San Francisco, la Corte minorile (Young Adult Court) da anni sviluppa programmi di giustizia riabilitativa. Partendo dal presupposto che i processi di maturazione delle aree cognitive del cervello non avvengono che attorno al ventiquattresimo anno d’età (con comprensibili differenze individuali che impattano la capacità di processo delle emozioni, del controllo e della cognizione), la Corte sviluppa azioni volte ad impedire che giovani siano giudicati con criteri, sanzioni e da assise per adulti sulla base del mero dato legale del raggiungimento della maggiore età. Al contempo, sviluppa programmi educativi, medici e sociali volti ad assicurare l’essenziale funzione riabilitativa e non strettamente punitiva della pena.
Dalla scuola al carcere. La punta, tuttavia, nasconde la parte sommersa dell’iceberg. Nel 2015, il US National Council of Disability, pubblica il rapporto che analizza la matrice denominata School-to‐PrisonPipeline, ovvero le determinanti che mostrano quanto il presentarsi di precise condizioni in epoca scolare aumentino in proporzione statisticamente rilevante il rischio di successive detenzioni. I dati indicano come l’85% dei minori incarcerati abbia disabilità dell’apprendimento (Language-Based Learning Disability), disabilità emotive, stress post-traumatici dovuti ad esposizione a violenza o abusi subiti, deficit di attenzione ed iperattività. Di questi, solo il 37% ha beneficiato di servizi sociali, sanità o educazione speciale. In molti vedono nell’approccio che criminalizza minori vulnerabili uno dei fattori che alimenta in modo esponenziale il fiume della detenzione. Per spezzare la catena che dalla scuola conduce al penitenziario, gli strumenti individuati sono semplici, ragionevoli: scuola, sanità, servizi. Dati preliminari sembrano incontrovertibili: giovani con difficoltà di appredimento vengono arrestati con incidenza doppia rispetto ai coetanei che non ne soffrono; minori con disabilità del neurosviluppo sono arrestati con incidenza quattro volte maggiore in epoca scolare rispetto a coetanei senza diagnosi di disabilità. In caso di arresto, poi, le difficoltà nel reagire a domande o a comprendere i documenti della procedura penale conducono a una maggiore incidenza di condanne o ad esiti detentivi più duri.
La Criminal Justice Reform: un primo passo. La Criminal Justice Reform è una delle rare aree di consenso bipartisan tra partito repubblicano e partito democratico. Nel dicembre 2018, Donald Trump ha firmato un primo progetto di riforma penale elaborato dal Congresso Americano: il First Step Act 2018. Il testo è il risultato di un lungo lavoro bipartisan cominciato dall’amministrazione Obama volto a ridurre i minimi edittali della pena e contenere i tassi di recidiva. I dati della US Federal Sentencing Commission, in uno studio che dal 2005 ha seguito longitudinalmente detenuti federali negli otto anni successivi ad una prima detenzione, conferma che il 31.7% di questi è stato successivamente accusato di altro crimine, e il 24.6% reincarcerato. La riforma vede giustamente nell’interrompere la spirale della recidiva uno dei fattori deflattivi del sistema. Dopo un anno dalla sua entrata in vigore, dati ufficiali mostrano alcuni primi effetti positivi. La riforma modifica i minimi edittali draconiani precedentemente applicati, riorganizza il rilascio compassionevole dei detenuti, appronta un sistema di accertamento del rischio e dei bisogni, amplia i benefici di buona condotta e introduce il processo di pianificazione di rilascio al termine della pena, prerogativa, questa, per sviluppare più efficaci programmi di reinserimento.
L’ampiezza delle disfunzioni del sistema, tuttavia, mostra come il “primo passo” sia ampiamente insufficiente a ridirigere il corso della mass incarceration statunitense. La riforma del 2018 riguarda il sistema federale. Come noto, la maggior parte delle competenze penali rimane nelle legislazioni dei cinquanta Stati, così come il grosso della popolazione carceraria è detenuta in penitenziari statali. Al netto del concreto impatto sul sistema strettamente federale di giustizia e contando il fenomeno di traino culturale di una legge federale, la correzione sistemica necessita della coordinata azione degli Stati e la volontà politica di modificarne prassi e legislazioni. Negli Stati Uniti si direbbe: “a whole different ballgame” (un altro paio di maniche). Se Stati a tradizionale propensione progressista hanno da tempo lanciato riforme, in altri di retaggio conservatore, tempi e ampiezza appaiono assai più lenti e limitati.
Biden-Harris: what’s next? Le aspettative riposte nel ticket Biden-Harris sono altissime. Nel programma elettorale, i candidati democratici hanno indicato chiaramente l’impegno sul terreno della giustizia sociale, della sanità e, in particolare, della giustizia penale. La campagna democratica ha recepito e amplificato le istanze di cui movimenti come Black Lives Matter sono portatori: ridirigere il corso della mass incarceration, riformare le pratiche di polizia, smantellare il razzismo sistemico.
Tuttavia, l’odierno “illuminismo penale” del Partito Democratico, rompe in realtà con un lungo passato di politiche di segno opposto, offrendo il fianco alle critiche dei repubblicani. Il mutamento di traiettoria diventa evidente durante la presidenza Obama. Date e fatti risultano significativi. Nel luglio del 2015, Barak Obama compie un atto storico: è il primo presidente a recarsi in un penitenziario e parlare con i detenuti. Sceglie un istituto di pena in Oklahoma. La sua amministrazione sta tentando disperatamente di intervenire sulla riforma penale e carceraria. Tuttavia, le condizioni politiche sono impraticabili: i repubblicani controllano il Senato e l’opposizione è inflessibile. Negli stessi giorni, Obama si appresta ad un altro gesto di profonda valenza, una di quelle cose che ancora oggi registra milioni di visioni YouTube: canta Amazing Grace durante il funerale del reverendo Clementa C. Pinckney e di otto altri afro-americani uccisi nel massacro presso l’Emanuel African Methodist Episcopal Church a Charleston in Carolina del Sud. Vittime, natura dell’attacco, collocazione geografica: difficile pensare a combinazione simbolicamente più pregnante della crisi etno-razziale che lacera la nazione. Nella circostanza, il Presidente ha solamente mezzi di azione simbolica: ammutolisce il paese cantando assieme ai pastori riuniti per l’eulogia funeraria, alle famiglie delle vittime, alla comunità afro-americana, all’intera America democratica. In quell’estate del 2015, Barak Obama, primo presidente afro-americano della storia, incarna le contraddizioni del paese. L’esasperante opposizione non gli accorda gli strumenti per agire efficacemente su uno dei nodi fondamentali della società americana: la violenza privata e delle istituzioni a sfondo razzista.
Duri con il crimine. Sempre in quei giorni di luglio 2015 la campagna elettorale per le elezioni del 2016 è lanciata. Anche se in fase iniziale, nei dibattiti è visibile uno dei temi scottanti che offre il fianco agli attacchi dei repubblicani: le responsabilità democratiche nell’ingegnerizzazione del sistema penale odierno. Gli argomenti mirano a delegittimare i moniti per la riforma giudiziaria dell’amministrazione e gli appelli dei democratici ad ascoltare le istanze che denunciano quanto la carcerazione di massa sia strumento sistemico di razzismo. Per i repubblicani, il Partito Democratico non può chiamarsi fuori puntando l’indice: ha approvato legislazioni improntate al Law and Order.
Alla convention della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), Obama rinnova l’appello per una Criminal Justice Reform. Nell’occasione, il 15 luglio 2015, un ulteriore fatto di grande rilevanza si produce. L’ex-presidente Bill Clinton riconosce pubblicamente dal palco delle NAACP gli errori commessi dalla sua amministrazione in materia di legislazione penale approvando, nel 1994, il Violent Crime Control and Law Enforcement Act. Il testo di legge abbracciava le retoriche della metà dei 90’ marcati dal dogma: “Tough-on-Crime” (duri con il crimine), irrigidiva ed automatizzava i minimi edittali delle pene (Mandatory Sentencing), implementava il principio dell’ergastolo automatico alla terza condanna per felony (Three strike and you are out), stanziava 9.7 miliardi di dollari per finanziarie penitenziari e politiche carcerarie, espandeva il novero dei crimini che possono ricevere la pena capitale.
Clinton riconosce che la legislazione federale ha creato un trend negativo per le politiche criminali degli Stati. Anche se i tassi di crimine sono statisticamente diminuiti, ciò si è ottenuto al prezzo di aumento spropositato di detenuti anche per crimini minori. La comunità afro-americana ne ha pagato lo scotto e le ragioni sistemiche della devianza completamente ignorate. Sotto questo profilo, elementi di cambiamento arrivano solo nel 2010, anno in cui Barak Obama, nel fuoco di fila dell’opposizione repubblicana, firma l’Obama Care con cui si estende l’accesso alla sanità pubblica per parte della popolazione americana. Il diniego del diritto primario alla salute è giustamente visto come una delle ragioni sistemiche all’origine della marginalizzazione e conseguente devianza.
Questo è il contesto culturale che vede l’ascesa, sulla costa opposta degli Stati Uniti a San Francisco in California, della stella che brillerà nel 2020 nella battaglia elettorale contro Donald Trump: Kamala Harris. Quella che oggi è figura dal portato simbolico giustamente simile a quello incarnato da Barak Obama, con l’aggiunta ulteriore della questione di genere che alimenta sogni e speranza, ha costruito la sua carriera come apice della magistratura inquirente (District Attorney) della città di San Francisco.
Kamala Harris irrompe sulla scena politica nel pieno del decennio in cui gli ambienti liberal sono ancora sedotti da premesse retributive della giustizia. Nel 1994, proprio mentre Clinton e il Partito Democratico approvavano il Violent Crime Control and Law Enforcement Act, un uomo con idee radicalmente progressiste della giustizia vinceva le elezioni per ricoprire il ruolo di District Attorney di San Francisco: Terence Hallinan. Nel 1995, Hallinan cominciava il suo lavoro come capo della pubblica accusa della città più libera e irriverente degli Stati Uniti. Hallinan, nato in città, viveva nel quartiere Haight-Ashbury, quello di Hendrix, Joplin, Santana, Jefferson Airplane, controcultura, psichedelia e Summer of Love. Con un passato di attivismo tumultuoso lungo tutti i 60’, era tra i pochi nel Partito Democratico ad avere un’idea diversa della politica criminale. Per Hallinan, la prostituzione non era un problema di ordine pubblico ma di sanità, depenalizzazione delle sostanze e della homelessness, percorsi di giustizia restaurativa e riabilitativa. Hallinan divideva: amato da molti era criticato da chi invocava il pugno duro sul crimine. Nel 2003, quando si aprì la campagna elettorale per il rinnovo del mandato, Hallinan si trovò a sfidare una candidata giovane e preparata: Kamala Harris.
Si sa, le battaglie elettorali negli Stati Uniti sono durissime. Kamala Harris attaccò l’avversario con posizioni di pragmatico riformismo giudiziario. In ragione di idee innovative sulla repressione penale, Hallinan non aveva statistiche roboanti di condanne ed incarcerazioni che altri procuratori normalmente sventolano in campagna elettorale. Rilevante, invece, era il declino dei reati violenti, segno che la risposta sistemica al crimine aveva fondamento. La società americana del tempo, anche quella “blue”, guardava altrove e Kamala Harris sconfisse Terence Hallinan nel ballottaggio con 13 punti di vantaggio, abbracciando una visione della funzione moderatamente riformista rispetto a quella più marcatamente trasformativa dell’avversario.
Se la vicenda è stata sfruttata dai repubblicani nella campagna presidenziale del 2020, molteplici elementi di contesto vanno considerati. Innanzi tutto, al momento della vittoria contro Hallinan, la sfidante vincitrice affermò: “Let’s put an end right here to the question about whether we are tough on crime or soft on crime. Let’s be smart on crime”. Una volta in carica, nei rigidi confini del ruolo che ricopriva all’interno del sistema di Law Enforcement, promosse sperimentazioni di giustizia restaurativa. Il netto passaggio verso le posizioni innovative odierne si è prodotto quando Kamala Harris è transitata dalla carriera giudiziaria a quella politica come Senatrice dello Stato della California e del Congresso Federale. La sua figura è quindi complessa, articolata, evolutiva. Al crocevia di molteplici variabili di contesto storico e personali, ha operato un percorso crescente che la conduce, in parallelo al Partito Democratico, alle consapevolezze odierne. Dalle strade di Oakland, sulla riva orientale della baia di San Francisco, ai centri e periferie urbani degli Stati Uniti, milioni di giovani donne con simili retaggi etno-razziali guardano oggi a Kamala Harris come il primo segno tangibile di una giustizia possibile.
I tempi sono quindi maturi e i fattori convergono verso quanto attivisti e specialisti invocano da tempo. Se la contingenza di una pandemia globale rende la disciplina delle “previsioni del futuro” uno sport estremo, le speranze giustamente riposte in Kamala Harris e Joe Biden portano concrete opportunità di cambiamento.
USA: Verità e Riconciliazione. Ho trascorso molti anni a studiare i processi di transizione democratica alla fine della guerra fredda: America Latina, Asia, Est Europa, Sudafrica post-apartheid. L’ultimo decennio del secolo scorso è stato caratterizzato da un grande dibattito sulla giustizia per i crimini del passato e sugli strumenti giuridico-processuali più efficaci per bilanciare giustizia e pacificazione. Concezioni retributive e restaurative di giustizia si sono scontrate. Mentre a livello internazionale sono state inaugurate le Corti Internazionali Penali (Ex-Yugoslavia, Ruanda e la Corte Penale internazionale permanente), gli Stati in transizione post-caduta del Muro di Berlino istituivano apparati di memoria e riconciliazione nazionale: le Truth and Reconciliation Commissions. In particolare, fu il modello progettato da Nelson Mandela e dall’African National Congress a fare scalpore: la Commissione sudafricana Verità e Riconciliazione. Per produrre una verità condivisa circa i fatti del passato e la riconciliazione tra le componenti razziali del paese, il sistema della Commissione contemplava la possibilità di amnistie per coloro che, responsabili di delitti politici nell’era segregazionista, erano disposti a confessare pubblicamente i reati commessi. La Commissione supervisionò migliaia di casi di amnistia, raccolse una monumentale quantità di informazioni su vittime e azioni del governo segregazionista, contribuì alla memoria collettiva condivisa portando le fazioni a confrontarsi sui medesimi presupposti di verità sui fatti.
Mai come negli ultimi quattro anni di violenta polarizzazione civile negli Stati Uniti, ho avvertito calzanti le idee che hanno animato la fine del mondo bipolare. Molte volte mi sono detto: “Gli Stati Uniti hanno bisogno di verità condivisa e riconciliazione”. Se si considerano i fattori di conflitto sospesi tra passato e presente, l’esigenza di ricucire gli strappi della storia sembra apparire con chiarezza. Il passato schiavista, lo sterminio delle popolazioni native, il diffuso sistema segregazionista di esclusione per le minoranze razziali, la violenza degli apparati istituzionali, incarcerazioni fondate su pregiudizi, la frattura sempre più profonda tra le “anime” del Paese, ricalcano i problemi affrontati dalle giovani democrazie post-Guerra Fredda. Su tutto, si staglia il bisogno di ricostruire la fiducia, la capacità di dialogo, la convivenza tra due parti dell’America: quella che vuole le fughe in avanti e quella che ne blocca il corso. Una dinamica e sognatrice, l’altra spaventata e rancorosa.
Negli Stati Uniti, statue e toponomastica costituiscono fattori di divisione. Bandiere e araldica cariche di significati lanciano semantiche di opposizione. Afro-americani e minoranze portano i segni di traumi lontani e di sofferenze recenti. Se gli esiti della Guerra Civile americana e il rifiuto dello schiavismo sono impressi negli Emendamenti della Costituzione, con la più alta valenza di ufficialità possibile, il passato non cessa di produrre “memoria malata”. Dalle pagine dell’ultimo libro di Barak Obama: A Promised Land, emerge la consapevolezza dell’ex Presidente di quanto la sua figura, per molti salvifica, sia stata proprio l’innesco per la riorganizzazione intransigente, populista e divisiva. Vano il suo sforzo di normalizzare e storicizzare la questione razziale, in cui un afro-americano diventa Presidente. Per molti, Obama, rimane figura inaccettabile, simbolo di un cambiamento che non deve avvenire. Quando gli errori storici, le responsabilità e le violenze non vengono ampiamente metabolizzate collettivamente, si trasformano in terreni mobili, intrappolati nel conflitto inestricabile delle opinioni. Gli Stati Uniti hanno, nelle pieghe delle evidenti contraddizioni sociali e storiche, una forza unica: le cose sono, appunto, evidenti. Le strutture frammentate delle città, i diseredati accampati, il numero e la tipologia fenotipica dei detenuti sono alla luce del sole. Al contempo sono visibili le idee e l’impegno dei tantissimi che operano ogni giorno per produrre cambiamento. Per problemi evidenti, in USA, c’è sempre un cambiamento possibile.
Da europeo che vive e lavora negli USA, leggo i giornali, parlo con i vicini di casa, discuto con amici e colleghi. Sempre più mi scopro pensare che gli Stati Uniti d’America abbiano bisogno di una verità condivisa simile ai processi di riconciliazione della fine del ventesimo secolo. Mi domando, altresì, se questa specifica declinazione dell’idea di Giustizia, non sia, in ultima analisi, il presupposto per ogni altra sua forma ulteriore.
In apertura: foto di Karsten Winegeart/Unsplash