Alla fine del 1926 il quotidiano yiddish americano ‘Forverts’ manda in Russia, Ucraina, Bielorussia e Crimea un reporter d’eccezione, Israel Joshua Singer, che, da spirito libero qual è, restituisce un affresco complesso dell’Unione Sovietica e della condizione degli ebrei a quattro anni dalla fine della guerra civile. Ne scrive qui la sua appassionata traduttrice
Credo che chiunque traduca abbia un debole, a volte segreto, per uno dei “suoi” autori, uno bravo e sfortunato.
Il mio debole non è segreto – sono arrivata a definirlo senza vergogna “il mio fidanzato” – ed è Israel Joshua Singer, che morì troppo giovane all’inizio del 1944 (aveva solo cinquant’anni) privandoci di chissà quali capolavori e passando il testimone della notorietà al fratello Isaac Bashevis, futuro premio Nobel.
In La nuova Russia, libro tradotto per la prima volta e curato da Elisabetta Zevi, Israel non fa il romanziere, ma il giornalista: tra la fine del 1926 e il 1927 il popolarissimo quotidiano yiddish americano Forverts, covo di ardenti socialisti, lo spedisce in Russia, Ucraina, Bielorussia e Crimea per vedere come se la cavino gli ebrei a cinque anni dalla fine dei tremendi pogrom del 1918-1921, che alcuni storici considerano come le prove generali dello sterminio nazista, e come sia la situazione in Unione Sovietica a quattro anni dalla fine della guerra civile.
Israel ha in mano le carte migliori per offrire ai suoi lettori un reportage eccezionale: non è un borghese tremebondo intimorito dalle conquiste dei lavoratori, ma non è nemmeno un militante comunista obnubilato dal desiderio di trovare a est della Polonia il giardino dell’Eden. Possiede una dote che forse non aiuta ad avere una vita felice nell’epoca delle ideologie, ma aiuta a raccontare quello che si vede, senza paraocchi di sorta: è uno spirito libero.
Il suo è un lungo viaggio: Mosca, Minsk, Bobrujsk, Char’kov, Ekaterinoslav, Odessa, la Crimea, Kiev, Berdicev. Il nostro reporter viaggia in treno, in nave, sui carri dei contadini, in automobile – e qui si vede che il classico attacco giornalistico “parlo con il taxista che mi porta da…” funziona con qualunque mezzo di locomozione. Visita infaticabile colonie agricole ebraiche, colonie comuniste, colonie di pionieri che sognano di partire per la Palestina, villaggi ordinati e prosperi, villaggi miseri, città in decadenza, città che si stanno trasformando, palazzi nobiliari diventati case di riposo per lavoratori. Parla con gente inasprita dalle difficoltà, con gente orgogliosa del proprio lavoro, con gente timorosa, con gente traumatizzata, con gente speranzosa; con i funzionari di partito, con gli accattoni, con i compagni di viaggio occasionali. Raccoglie lamentele e richieste da inoltrare alle agenzie ebraiche americane che mandano aiuti alle colonie agricole, sotto forma di fondi, di macchinari o di tecnici capaci di trasformare in contadini efficienti ex abitanti di città, ex artigiani con poca familiarità con vanghe ed aratri. Pone un’infinità di domande, è un uomo estremamente curioso di tutto, e infatti pur essendo il destino degli ebrei l’argomento centrale del suo reportage finisce per dare un ritratto interessantissimo e a tratti anche divertente della situazione delle altre minoranze in seno alla giovane Unione Sovietica, e dei rapporti tra loro. Dico “divertente” perché sotto alla prosa veloce e istintiva del giornalista c’è la capacità del letterato di usare tutti i registri, dal serio o drammatico – o tragico – al sornione e ironico, e soprattutto autoironico: Israel racconta delle sue paure di uscire denudato da un locale pieno di tatari vocianti che a tutti i costi vorrebbero comprare la giacca e i pantaloni dello straniero, che a loro sembra un elegantone, o dello stupore nello scoprire che i nuovi ebrei sovietici allevano con orgoglio grossi e grassi maiali: “E io che ero convinto di conoscere il popolo ebraico”.
L’animo disincantato e gli occhi onesti del giornalista – che come ci spiega Francesco M. Cataluccio nell’interessantissima postfazione intitolata “Uno scettico nel paese dei soviet” ha il grande vantaggio, rispetto ad altri inviati stranieri, di non aver bisogno di un interprete e dunque di essere meno controllabile e manipolabile – ci accompagnano a scoprire i progressi fatti dopo i giorni sanguinosi della guerra civile (Israel Singer aveva vissuto a Mosca e a Kiev, in quell’epoca), ma anche le grosse crepe che si stanno allargando: la santificazione di Lenin, l’irrigidimento ideologico, l’onnipresenza delle spie di regime. Scrive Israel nell’articolo che porta il titolo di Il santo Vladimir: “E proprio in virtù dell’antico amore dei russi per gli dèi, per la ricerca di un dio, ora vediamo come il nuovo santo Lenin regni sull’immensità della Russia, come la gente si genufletta dinnanzi alla sua immagine, come si insegnino le sue ‘leggi’ e come rischino la lapidazione gli eretici e gli impertinenti che osano andare contro la sacra Torah.”
I.J. Singer La Nuova Russia, a cura di Elisabetta Zevi, traduzione di Marina Morpurgo con una Nota di Francesco M. Cataluccio, Adelphi Edizioni
In apertura foto di Michael Parulava/unsplash