Ascoltata all’Auditorium Parco della Musica di Roma la Passione secondo Giovanni diretta dal direttore anglo-italiano. Conversazione con Antonio Pappano, che che ci parla dell’effetto Bach e delle variazioni sul tema del sacro di questa immortale partitura
Due polifoniche ore dopo, Antonio Pappano rientra in camerino con un’elettricità impensabile. Parrebbe proprio l’effetto-Bach, che ancora si insinua tra i gesti del direttore alla fine del contrappuntistico calvario musicale con solisti, coro e orchestra che è la Passione secondo Giovanni, nuova incursione nel sacro di tre secoli fa per l’Accademia di Santa Cecilia.
Qual è il suo stato d’animo dopo la discesa-ascesa di questo brano?
«Umile. Dopo aver diretto un brano del genere non posso che sentirmi umile. Ma faccio fatica a non calarmi di nuovo nel mio ruolo di direttore: mi chiedo quali passaggi siano andati bene, quali meno bene, in che modo l’esecuzione potrà migliorare domani. Continuo a ripensare a centinaia di dettagli».
Non si può biasimarlo, vista la complessità di queste variazioni sul tema del sacro. Forse la Passione più suggestiva di Bach è proprio secondo Giovanni, trascurata rispetto alla stracelebrata, sublime ma prepotente secondogenita da Matteo. Certo quest’ultima fu protagonista leggendaria della riscoperta bachiana di Mendelssohn del 1829. Il quale però non trascurò nemmeno questa prima Passione, che diresse quattro anni dopo, poi sottovalutata forse perché meno sontuosa, più cruda e grezza, quasi preparatoria per l’altra, si diceva.
C’è un passaggio che sente con particolare intensità quando dirige?
«La morte di Gesù, con il silenzio che cala all’improvviso, anche se ovviamente il silenzio non si scrive in partitura. Però Bach riesce ad allestire un momento catartico, costruito su accordi semplicissimi. E mi sembra di sentire la testa di Gesù che si china, nel suo ultimo istante di vita».
Per spiegarmi questo passaggio – trentunesimo numero, un solo verso da Giovanni: «E chinato il capo, rese lo spirito» – abbassa la testa con gravità, tenendo gli occhi chiusi. Poi per una decina di secondi non parla. Le parole cadono, quasi non si sente più il chiacchiericcio dei fan in fila davanti al camerino. «È forte. Si può essere credenti o no, ma resta il fatto che su quella croce c’è una persona: non è possibile non cogliere in questo brano la grande lezione di compassione. Credo che Bach l’avesse capito molto bene».
Come ha reagito l’orchestra durante le prove?
«Ho notato molta concentrazione, forse più che per qualsiasi altro repertorio. Tanto che mi è sembrato che fossimo ritornati bambini insieme, tutti radunati intorno a un grande personaggio. Mi verrebbe da dire intorno a un padre. Credo che sia soprattutto dalle opere religiose che si capisca la grandezza di Bach: in un certo senso è un eroe. E oggigiorno abbiamo bisogno degli eroi».
Cosa vuol dire religiosità in musica?
«È difficile da definire. Certo c’è un testo innanzitutto, che da subito crea un’atmosfera precisa. Ma in un brano come questo sono convinto che siano i timbri la caratteristica più affascinante. Penso alle due viole d’amore, al liuto, alla viola da gamba, all’organo, all’oboe da caccia. C’è persino un momento in cui i due flauti suonano insieme, all’unisono. Non mancano passaggi molto strani: Bach ha davvero osato timbricamente. Ma sono proprio questi colori che danno al brano impensabili sfumature».
Sfumature capaci di rendere spirituale la musica.
«Ma in questi passaggi non c’è solo la musica: intervengono anche i pensieri, le parole, addirittura la vita interna di chiunque stia suonando. Anche chi sta ascoltando partecipa: stasera nel pubblico ho percepito una reazione».
Ci sono altri autori per cui nota la stessa partecipazione collettiva?
«In Bach dappertutto. Però se penso alla concentrazione di alcune pagine di Wagner: in Tristano e Isotta, o Parsifal. Ma vale anche per Verdi, ad esempio in Falstaff. Quando entri in questi mondi ti ritrovi subito altrove, ma faccio fatica a spiegarmi: è tutto così soggettivo».
Mi dica soltanto qual è per lei la musica più spirituale.
«La religiosità, la spiritualità le vivo fortemente nella musica di Bruckner. Ma che dire di Mozart? O di Beethoven? Nella Missa Solemnis ma non solo. Anche in Fidelio mi sembra che tutto sia incatenato: umanità, emozioni, conflitti, passaggi struggenti, ma soprattutto speranza. Quando l’abbiamo eseguito qui pochi mesi fa sentivo questa catena di nuances».
Continuerà il suo percorso sacro a Santa Cecilia?
«Di Bach mi manca L’Oratorio di Natale. Un brano diverso: più festivo, meno fosco di questo racconto così drammatico: davvero il testo di Giovanni è allucinante per la crudeltà. Poi vorrei portare la Messa di Gloria di Rossini, che mi piacerebbe anche incidere».
L’armonioso labirinto di contrasti musicali di questa Passione ha diritto ad altrettanti onori pasquali dell’altra secondo Matteo. Curiosamente quest’ultima è stata ignorata quest’anno in una città come New York, come segnalato da James R. Oestreich, dove non ha avuto nemmeno un’esecuzione contro le cinque secondo Giovanni, così come sono diverse le nuove incisioni a fare fronte comune per sostenere la più antica, portatrice in musica di un terrore sacro che su una tela avrebbe la firma di Grünewald.
Ma più che Grünewald o Dürer, quella di Pappano potrebbe essere una crocifissione alla Dalì. Sir Tony dirige con mistico trasporto antifilologico: strumenti antichi, certo, ma circondati dal mantello bruckneriano che è il suono di questa orchestra avvolgente e sensuale, che qui respira a due polmoni con il coro di Ciro Visco. L’affascinante lettura di Pappano ha schiuso sul pubblico un sipario più di spiritualità che di mistero, dal gusto più neogotico che gotico. Ma con questa tinta dialetticamente sintetica, il direttore è riuscito a tenere col fiato sospeso la grande sala del Parco della Musica a trecento anni di passati e presenti positivismi e scetticismi.
Viene in mente una frase di Michael Marissen dal suo ultimo libro Bach & God, quando confessa di non poter essere «comfortable agnostic» mentre ascolta Bach. Penso che valga lo stesso per le sfumature pervasive e “sbagliate” di Pappano. Cast di prim’ordine, con Andrew Staples come Evangelista in perfetto equilibrio tra declamato e lirismo, e poi con Roderick Williams, Lucy Crowe, Ann Hallenberg, Christian Gerhaher e Carlo Putelli.