Il documentarista Marco Segato ambienta in una valle ai piedi delle Dolomiti, tra temi universali e sentimenti intimi, il suo primo film di finzione, tratto da un romanzo di Matteo Righetto e dedicato al ricordo di Carlo Mazzacurati, di cui è stato assistente regista, tutti padovani. Il 14enne Domenico ritrova nel padre Pietro la figura guida che ha sempre cercato, andando con lui a caccia del grande, minaccioso animale, che terrorizza da tempo il minuscolo paese di montagna dove vivono
La pelle dell’orso è un film che mette al centro un forte rapporto con il territorio: per esordire nel cinema di finzione, il 43enne documentarista padovano Marco Segato sceglie di adattare (insieme a Enzo Monteleone e Marco Paolini, che ne è il protagonista) il romanzo omonimo dello scrittore concittadino Matteo Righetto, e non c’è da stupirsi se la società di produzione è proprio la padovana Jolefilm, già nota per i lavori di Andrea Segre Io sono Li e La prima neve. La prima scena rievoca da vicino le atmosfere di Alberi, videoinstallazione di Michelangelo Frammartino, presentata nel 2013 al festival milanese Filmmaker e la suggestione nasce dalla presenza di un antico rito silvano in cui c’è una sorta di processione di uomini vestiti da capo a piedi di foglie e rami.
Anche qui un rito ci introduce nel mood del racconto: anni ’50, un villaggio di montagna, una valle raccolta ai piedi delle Dolomiti e una comunità chiusa, superstiziosa, che assiste e partecipa alla sfilata di un uomo con indosso una pelle d’orso, spaventoso e ridicolo al tempo stesso. La natura della cerimonia è apotropaica per gli abitanti del villaggio: da anni nella valle un orso gigantesco e feroce, quasi mitologico, è diventato il terrore personificato, incarnando tutte le paure più ancestrali dell’uomo. Alla fine del rito, giunti a un’alta pira infuocata, l’uomo-orso si svela e mostra Paolini nei panni di Pietro Sieff, un uomo di poche parole che non disdegna il vino, deriso dalla comunità in cui vive, padre del 14enne Domenico (Leonardo Mason) con cui non riesce più ad avere un rapporto, forse dopo la morte della madre. Un personaggio lontano dal Paolini del teatro di narrazione, dell’ironia e della satira. “Lo spettatore non ha tutte le informazioni che vorrebbe su questa storia e su questo personaggio”, dice Paolini, “perché questo è il nostro sguardo su un mondo chiuso, sul mondo della valle e della montagna, del quale agli estranei si dice pochissimo, anche se tutti, lì, sanno tutto di tutti”.
Il motore dell’azione si ha quanto Sieff, dopo qualche ombra de vin di troppo al bar Posta, dice “Lo farò io”, e scommette del denaro con Crepaz (Paolo Pierobon) sul fatto che lui catturerà quell’orso, detto el Diàol, che minaccia da sempre la comunità. In questo modo riscatterà anche la fama di buono a nulla che gli hanno attribuito e ricostruirà un rapporto col figlio, che decide di seguirlo nel suo viaggio. Qui inizia l’avventura, e lo spettacolo dei boschi che Pietro e Domenico attraversano diventa uno sfondo di incredibile bellezza, e un personaggio attivo pure: la natura coi suoi alberi, i suoi animali selvatici è vissuta in senso romantico dai protagonisti, è il luogo in grado di rasserenare gli animi quanto di sconvolgerli di inquietudine e terrore. Grazie ad un ottimo lavoro di sound design, è il suono lo strumento principale con cui si veicola un senso di paura, di sublime splendore e di pericolo sempre in agguato.
Da questa unione scaturisce uno dei temi fondamentali del film, il coraggio. In questa avventura “non è questione di pallottole o di forza, ma di coraggio”, insegna il padre al figlio. Pietro deve avere il coraggio di riprendere in mano la propria vita, recuperare la reputazione perduta e dimostrare a tutti, in primis al suo unico figlio, di valere qualcosa. Domenico deve avere il coraggio di crescere, entrare nel mondo degli uomini e superare la scomparsa della madre. E anche se i due parlano poco, l’evoluzione del rapporto padre-figlio è evidenziata dall’attenzione nel sottolineare alcuni gesti, dettagli d’affetto che crescono nel corso della visione. Nel libro i dialoghi sono più estesi e il riavvicinamento fra Pietro e Domenico è più costruito, graduale. E certo non è questa l’unica differenza fra il romanzo e il film: innanzitutto l’azione è stata spostata una decina d’anni indietro, poi ci sono alcuni caratteri creati ex novo dagli sceneggiatori (la figura femminile di Sara interpretata da Lucia Mascino, per esempio) mentre altri sono stati eliminati, come il vecchio amico Pepi Zelger, che non appare sullo schermo forse per i suoi modi sboccati o l’impossibilità di racchiudere così tante bestemmie in un solo film!.
Ma soprattutto il finale è stato ampiamente riscritto, e reso più incisivo, efficace: una ripresa dall’alto fotografa, o quasi ritrae pittoricamente, Pietro Sieff disteso per terra accanto all’orso, l’uomo e la bestia ricoperti di sangue, entrambi morti, ma uno vincitore e l’altro vinto. Nella conclusione del libro, invece, Pietro muore di crepacuore e Domenico uccide l’orso, a indicare un percorso di formazione in più. Le ultime pagine lasciano intravedere inoltre la catastrofe della frana del monte Toc nella diga del Vajont, tema raccontato dallo stesso Paolini con fervore nell’eccellente monologo teatrale Vajont 9 ottobre ’63 – Orazione civile del 1993. La tragedia individuale di Domenico per la morte del padre si fa così collettiva, a causa di una calamitá naturale devastante (uccise, nella realtà quasi duemila persone) che però (saggiamente) non entra nel film. Segato vuole parlare di una storia piccola e intima, universale, simbolica, dai tratti fantastici, che porta l’eco dei grandi romanzi americani di Twain e London, ma resta tutta ambientata in una sperduta valle veneta.
La dedica finale “a Carlo” è facile da immaginare, è alla memoria di Carlo Mazzacurati, di cui Segato è stato assistente alla regia nel film La giusta distanza. Anche lui è stato un grande regista e sceneggiatore, della bella Padova.
La pelle dell’orso, di Marco Segato, con Marco Paolini, Paolo Pierobon, Lucia Mascino, Leonardo Mason, Maria Paiato, Mirko Artuso