“La più amata” di Teresa Ciabatti, candidato allo Strega 2017, è quadro famigliare disturbante che non lascia indifferenti
Nel teatrino di ipotesi e scommesse sul vincitore del Premio Strega che ogni primavera intrattiene i lettori di siti e riviste letterarie, quest’anno la favorita sembra essere Teresa Ciabatti, con il suo romanzo autobiografico La più amata.
La storia è quella di una famiglia infelice, in cui un padre prepotente e manipolatore (massone, gran maestro della Loggia di Firenze […] uomo senza scrupoli, ateo, bugiardo, fascista p.213) schiaccia una madre idealista e illusa, fino a convincerla a dormire per un anno intero. Nel mezzo di questo conflitto, ci sono due figli: lo schivo Gianni, e Teresa, che pur di farsi notare – e, come suggerisce il titolo, amare – se ne inventa una più del diavolo. Raccontata così, questa storia non ha niente di più di tanti romanzi borghesi che abbiamo letto da Anna Karenina in avanti. Qui, in più, c’è però la rabbia autentica di questa bambina mai cresciuta verso i suoi genitori, ma soprattutto verso se stessa. Le descrizioni che l’autrice fa dei propri capricci, del proprio egocentrismo, delle proprie illusioni da principessa di Orbetello, sono così impietose da risultare scomode, quasi insostenibili. Pagina dopo pagina, la Ciabatti scava in modo disordinato, ridondante, ossessivamente ripetitivo (ma con stile tagliente, perfettamente calcolato), nelle pieghe della propria infanzia, dissotterrando stralci di ricordi, episodi di una vita privata contaminata di massoni, intrighi, tentati golpe, magheggi e rapimenti.
Il quadro è volutamente disturbante, e senz’altro non lascia indifferenti: il disagio di queste pagine è reale, come reali sono i buchi, i punti che non tornano, i ricordi che non combaciano, nell’infanzia di Ciabatti come in mille altre.
I problemi arrivano verso la conclusione, nella quarta parte, significativamente intitolata I sopravvissuti. Per quasi 200 pagine, Teresa ci ha portato a spasso per la sua infanzia, ci ha fatto immaginare le vite meschine dei suoi genitori, ci ha fatto vivere i drammi, le umiliazioni e le violenze di lei bambina e adolescente, lasciandoci supporre che in qualche modo qui – da qualche parte – ci sia lo sbaglio, l’abominio, il crimine orrendo che l’ha resa l’adulta sospettosa, inquieta anaffettiva […] Egoista, superficiale, asociale (p. 207), che è oggi, a quarantaquattro anni. Qualcuno mi ha fatto del male. Ricordo, collego, invento. Cosa ha generato questa donna incompiuta. Scrivo di mio padre e mia madre, ricostruisco la storia di famiglia per arrivare a me. Scrivo, ricordo, invento (p.216).
Invece, ammette ora, con una sterzata che toglie il fiato:
Avrei voluto che quell’anno succedesse qualcosa, che qualcuno mi facesse del male, mi picchiasse, violentasse, si macchiasse di una colpa, a cui potesse seguire una vendetta, avrei voluto essere qui, oggi, vittima dignitosa, ad accusare tutti. Purtroppo […] non è successo niente, buonanotte bambini. Notte. E di nuovo mattina. Teresa Ciabatti, rassegnati, non sei tu la protagonista di questa storia, non sei protagonista di niente. (p.217)
Tutto (si fa per dire) qui. Non c’è mistero da risolvere (per una volta!), ma non c’è neanche perdono verso i genitori, né accettazione di sé. Qualche critico ha definito La più amata un romanzo catartico. Non sono d’accordo. In realtà, l’autrice ci dice solo: sono un’adulta incompiuta, non so fare questo, non so fare quello. E sono fatta così anche se non mi è successo niente di tremendo, nonostante abbia scavato molto per cercarlo. Una volta giunta a questa conclusione, Ciabatti chiude il libro. La catarsi (se c’è) è forse oltre le pagine, nella vita adulta che si spera attenda Teresa una volta liberatasi dall’ossessione del passato. Ma di questo, qui, non si parla. Coraggiosamente, non si scade in nessun buonismo, non c’è nessuna liberazione. Resta solo un grumo di dolore da digerire, che è poi forse quello che trasforma un bambino in un adulto.