La provvidenza rossa: era Milano, erano i ’70, era il Pci

In Letteratura, Weekend

Un giallo, autore Lodovico Festa che negli anni ’70 c’era, corrente migliorista del Pci per poi passare al centrodestra, da leggere come un gran bel libro di memorie di Milano, della politica e dell’ambigua grandezza del partito

Milano, autunno 1977. Una sventagliata di mitra uccide nel suo chiosco di via Procaccini, zona Sempione, una giovane fioraia, Bruna Calchi, protagonista del giallo La provvidenza Rossa. La raffica omicida è partita da una Maschinenpistole, il famigerato Mp 40 in dotazione alla Wehrmacht. Un delitto del neofascismo, che in quel 1977 è attivo ed efferato quanto il terrorismo rosso e ha almeno tre omicidi di militanti di sinistra all’attivo in Italia (le Brigate Rosse invece hanno gambizzato Indro Montanelli e ucciso l’avvocato Fulvio Croce e il giornalista Carlo Casalegno)? Un’esecuzione della criminalità organizzata, dove si fa strada il catanese Angelo Epaminonda che gestisce bische e spaccio di droga ed è stato luogotenente di Francis Turatello, arrestato in quel 1977 che vede finire in carcere anche Renato Vallanzasca?

Le due ipotesi sono entrambi credibili perché la vittima è iscritta al Partito Comunista ed è una militante più che attiva: fa parte del direttivo della sezione Sempione, scatena la protesta della zona contro un parcheggio che ha in apparenza tutte le caratteristiche del “mostro edilizio”, combatte le battaglie di categoria contro il “racket dei fiori” nella Confesercenti, recita in una filodrammatica Arci che massacra Brecht con le migliori intenzioni, riesce a trovare il tempo anche per occuparsi dei diritti dei gay. Ha soltanto un difetto la Bruna, dice il segretario ingraiano e bancario della sua sezione: ama lo sdolcinato Baglioni, esistono cantautori migliori, e le troppo facili poesie di Prévert, le avevo consigliato di leggere Rimbaud…

Sull’omicidio prova a far luce il commissariato di zona, che ha affidato le indagini all’ispettore Modena, poliziotto democratico attivo nel costituendo sindacato di polizia e “uomo di mondo”. E si muove, in parallelo e con efficienza felpata, il Partito Comunista, che ha affidato l’indagine ai probiviri regionali presieduti dal ferreo ex partigiano Peppe Dondi. Il detective comunista è il vice di Dondi, il disciplinatissimo e intimamente perplesso ingegner Cavenaghi, che per arrivare alla verità (ed eventualmente occultarla, se nuoce al buon nome del Pci) rivolterà il partito come un calzino.

Questo, in sintesi, il mistery pubblicato da Sellerio, esordio in narrativa di Lodovico Festa, veneziano, classe 1947, che del Partito Comunista milanese è stato, da prima di quel 1977 e fino al suo scioglimento in seguito alla caduta del Muro di Berlino, dirigente di buon livello. Per poi fondare assieme a Giuliano Ferrara Il Foglio di cui è stato condirettore, e diventare giornalista e commentatore del Giornale. Che dirne? Che è un buon giallo, ma che non è questa la sua qualità migliore. E che, anzi, se si dovesse giudicarlo soltanto come un giallo, si avrebbe buon gioco a notarne qualche difetto: la mole eccessiva per un’opera di genere (527 pagine, che quasi neanche Le Carrè), la lentezza quasi ipnotica del ritmo narrativo (lo stile, mimetico, è quello di un funzionario comunista, Cavenaghi appunto, che a distanza di anni rievoca gli accadimenti), la folla delle comparse tra le quali si fa fatica a trovare personaggi a tutto tondo. Un gran personaggio poteva essere – ed è comunque l’unico personaggio, e ci affeziona a lui – questo Cavenaghi: che frequenta i ristoranti nefasti dei funzionari comunisti (la terribile trattoria gestita da osti militanti che ammannisce i micidiali testaroli) come i detective degli hard boiled frequentavano le peggiori tavole calde. E ha una donna che l’ha mollato per il suo eccesso di militanza.

Ma quel che manca al romanzo giallo va segnato all’attivo sul fronte della memorialistica: si può, credo, affermare che, sotto le mentite spoglie del poliziesco, La provvidenza rossa è un gran bel libro di memorie su quegli anni. Sulla Milano di quei convulsi ’70 o, meglio ancora, sul Partito Comunista nella Milano di quegli anni.

Vale la pena di ricordarlo, quel 1977. Era l’anno dell’autonomia e della marcia (parasquadrista) sulla civilissima Bologna di Zangheri. Della contestazione a Luciano Lama, all’università di Roma. L’anno di molti morti ammazzati, di Jimmy Carter presidente e della tv a colori, del primo impeachment a ministri della Repubblica (Gui e Tanassi, scandalo Lockheed). Della fuga di Herbert Kappler dal carcere militare del Celio e della morte di Elvis Presley nella residenza-carcere di Graceland. Di Cefis che lascia la Montedison e del Pci in area governativa.

A Milano, il Pci è al governo già da qualche anno, prima con Aldo Aniasi e, in quel 1977, con Carlo Tognoli che sarà sindaco fino al 1986. Il romanzo di Festa comincia con il segretario provinciale del Pci, Gillo Pessina, che segue con attenzione spasmodica la campagna di tesseramento: 58.927 iscritti nel 1976, distribuiti in 378 sezioni, sei zone in provincia, venti zone in città e sei zone in provincia. In quel 1977, è il caso di ricordarlo a chi legge questo articolo e forse leggerà questo libro, a quasi quarant’anni di distanza, il Pci era il primo partito di Milano: 354.603 voti nelle elezioni comunali del 1975, il 30,9%, 25 consiglieri comunali su 80, davanti alla Democrazia Cristiana (313.955 voti, 26,95%) e al Partito Socialista (172.558 voti, 14,79%). Era il perfetto partito “di lotta e di governo”, che amministrava e monopolizzava al tempo stesso l’opposizione sociale. L’incarnazione perfetta di un organismo sofisticato e pervasivo a cui poco sfuggiva nella società (le indagini del proboviro Cavenaghi sono esemplari di questa capacità di penetrare in ogni meandro, di avere referenti e interlocutori tra i becchini e le entraineuses di zona Sempione come tra i gesuiti e tra i membri del Politburo sovietico). Di lotta e di governo è un ossimoro fattuale.

In un’epoca in cui il centralismo democratico metteva la sordina alle correnti, l’apparente unanimismo conciliava (e al tempo stesso nascondeva) realtà spesso confliggenti, che nei primi anni ’90, sull’onda di Mani Pulite, sarebbero esplose diventando inconciliabili o quasi: i socialdemocratici, chi credeva al dovere di amministrare con tutti i compromessi e le spregiudicatezze del caso (i miglioristi, il “partito degli assessori” secondo la vulgata degli avversari); e i movimentisti, gli ingraiani e affini, quelli che il romanzo di Festa schematizza con la felice opposizione fra “i numeri” e “l’anima”. In mezzo, la spaccatura trasversale dei filo e degli anti sovietici: spesso filosovietici i più riformisti, spesso antisovietici i più “di sinistra” (Enrico Berlinguer, segretario venerato, era discusso fra i dirigenti del partito e per aver sciorinato le virtù della democrazia all’attonito Breznev e per aver fallito l’appuntamento con la modernizzazione del Paese con le battaglie per la scala mobile e con l’apparente strumentalismo della questione morale).

Di tutte queste disarmonie tenute in sordina e depotenziate, e dei molti luoghi comuni di sinistra tollerati ma non amati, del dilettantismo sentimentale e sloganistico che la struttura ferocemente raziocinante di un partito togliattiano – lo dico come una constatazione, non come un insulto – vedeva come espressione di infantilismo, il libro dà conto in maniera puntuale e “romanzesca”: cioè raccontandole, e non esponendole come “contraddizioni” o documenti congressuali. Come dà conto, questo sì in maniera meravigliosa, della topografia di Milano: raccontando vie e piazze (anzi, l’assenza di piazze decenti a Milano), quartieri e palazzi non memorabili come nessuno finora è riuscito a fare.

Spira, da tutto il romanzo di Festa, una voglia di smitizzare la sacralità del fu Partito Comunista che è, al tempo stesso, nostalgia spesso acuta di un’epoca di ambigua grandezza. A cui è succeduto, comunque la si voglia mettere, un lungo periodo di medioevo politico: non sto parlando soltanto del ventennio berlusconiano, ma anche dell’opposizione appaltata alle tricoteuses.

Io Lodovico Festa l’ho conosciuto negli anni ’80, quando collaboravo a Il Moderno, il mensile di ispirazione migliorista (ma non era un house organ, ed era un giornale bello e vivace) che lui dirigeva. Ne ho un buon ricordo: di persona civilissima e colta, riservata, forse intimamente disgustata dalle ingenuità giovanili e dai radicalismi dei collaboratori come me, ma capace di farci battere strade non banali.

Io presumo di essere ancora di sinistra, lui è passato al centro-destra. Abbiamo tutti e due le nostre ragioni, e la guerra civile forse è finita. Ma che esperienze come la sua (e del gruppo dirigente “migliorista” del Pci) siano state liquidate con troppa facilità, con troppo bigottismo girotondista, come del resto è accaduto al Partito Socialista di Craxi, come puri passaggi di campo o come pure appendici di storie giudiziarie, è una storia intellettualmente disonesta.

Caro Vicky, non avresti voglia di raccontare, nel tuo prossimo libro, com’è che il giocattolo si è rotto? Sarebbe interessante leggerti.

PS. Va da sé, per quanto riguarda il giallo, che il partito arriva al colpevole prima della polizia.

Immagine di copertina di Fototak

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