Paolo Trotti e Linguaggicreativi portano in teatro “Rocco e i suoi fratelli”, svelandone forse gli aspetti più profondi e tutta la loro contemporaneità. Fino al 12 al Teatro Elfo Puccini.
Con quali parole raccontare chi vive, incarna, la povertà, la marginalizzazione, la sconfitta? Una dizione come “proletario” è ormai uscita dall’uso, per non parlare di sottoprolatariato, Ce n’è, forse, una più precisa, con un puntuale corrispettivo iconografico e filmico, ma anche letterario: sono, rispettivamente, “Rocco e i suoi fratelli” e la sua fonte letteraria, il testoriano Ponte della Ghisolfa. Lo consegna alla scena – e al palcoscenico del Teatro Elfo Puccini, Linguaggicreativi, con un omaggio ai due illustri precursori dal titolo di suggestiva linearità “La purezza e il compromesso”. Ad arrivare sulla scena non è solo il rovescio del boom economico, i volti segnati di chi, anche allora, veniva lasciato indietro. Ma un’intera categoria umana. Quella di chi, da vendere o da spendere, non ha nemmeno una prole, ma nient’altro che il proprio stesso corpo. Per portarla in teatro, la scelta registica di Paolo Trotti asciuga la ricchezza della fonte ufficiale in una sintesi spietata come la sua radice. Simone e Rocco che perdono il cognome Parondi e la collocazione geografica esplicita eppure sono dichiaratamente loro, foci opposte di una stessa radice, strappata o rimpianta, e il doppio volto del luogo che li accoglie, spietato e crudele ma di nuovo in modi opposti: Duilio, il padrone, e Nadia, l’amore e il possesso. Restano loro, tolto l’omaggio al regista milanese, elegantemente dichiarato in una scena che gioca a stare in bilico col set, muovendo macchine e fari e dando voce ai ferri del mestiere, alle indicazioni e alle intuizioni del Conte Rosso, presentissimo in assenza. E ad emergere, liberando la storia dalle maglie della sua ricerca estetica, è l’urgenza da cui era forse autenticamente mosso, e che in questo senso lo accosta più di quanto avrebbe voluto dall’amico/nemico Pasolini: dare, appunto, centralità al corpo.
Sono, innanzitutto, i loro corpi, i due fratelli. Come corpi sono pensati (dagli altri e da se stessi) come corpi puri Duilio li utilizza. Corpo per combattere, corpo che agisce e su cui agire violenza, corpo con cui veicolare la rabbia e corpo da lasciar distruggere consumandolo nel godere tutti i vizi che la ricchezza concede. Ma se – pur distaccandosi dichiaratamente molto, e non potrebbe essere altrimenti, dagli interpreti originali – Simone (un atletico e brutale Michele Costabile) è corpo virile elevato a potenza, sconfitto dalla sua stessa incapacità di dominare gli istinti, il Rocco di Stefano Annoni conserva, senza rinunciare ad un filo di ambiguità, una memoria di quella purezza e autenticità di sentimenti che Visconti sublimerà nei suoi protagonisti più iconici. Sono corpi, poi, la Nadia di Margherita Varricchio, crudele e disperata, che si vende e si nega provando come può a disporre di sé con quel poco di margine che le è concesso, mentre dei corpi il Duilio spietato e tragico di Diego Paul Galtieri è sostanzialmente un utilizzatore, pappone e insegnante, motivatore e mefistofelico nemico per sfuggire da se stesso e da un desiderio che può far esistere solo esercitando il suo potere. Visti da questa prospettiva, i protagonisti svelano del loro ideatore più di quanto avesse intenzione di dire, tra un maschile bifronte e una identità complessa da elaborare, sempre sul confine sottile tra rivendicazione e rifiuto del proprio privilegio, anche – forse soprattutto – di classe.
Il teatro si rivela così il luogo più adatto, nel suo essere per definizione lo spazio dei corpi vivi, per restituire la contemporaneità di una storia che non conosce vecchiaia. Perché in scena non si sta raccontando più soltanto le periferie, nel ritratto neorealista delle promesse mancate del nord verso il sud. A prendere forma sono le intime ambiguità dell’umano, i fallimenti più intimi che se trovano parole sono elegantissime, come alcuni passi del testo, ma per chi non le sa trovare hanno la forma scomposta delle botte, dell’odio che si crede amore e della violenza fino alle più estreme e aberranti conseguenze. Oggi come allora perdono tutti e lo fanno nel modo più assoluto, più carnale e drammatico, che disegna scontri che sembrano amplessi, e portano in scena picchi emotivi che si potrebbero considerare melodrammatici se lo slittamento semantico del termine non rischiasse di farli difettare in sincerità.
Potrebbe essere Visconti visto attraverso Fassbinder, se si volesse cercare una sintesi di padri e maestri, è una messa in scena molto curata, dove la violenza è scandita dall’oscillare di due piatti che, come pendoli segnano lo scorrere del tempo e la distanza da un Paese sognato e perduto a cui si può solo immaginare di tornare, e il gong inesorabile che segna la fine di una ripresa sul ring. Un lavoro che rende merito a tutta la carica disturbante e complessa che la storia porta ancora con sé, dove la salvezza è temporanea e forse solo illusoria. Ma si consegna a un presente che deve chiedersi, senza l’alibi del racconto neorealista di un tempo concluso, a che punto è, oggi, l’essere umano.