Con “Re Lear è morto a Mosca” a Campo Teatrale, una compagnia di talentuosi giovani attori, guidati da Cesar Brie, mette in scena uno spettacolo multiforme e affascinante, a dimostrare come il teatro sia politico soprattutto quando è se stesso.
Uno spettacolo come non se ne fanno più. Sia detto con gratitudine, senza alcun passatismo. Ma “Re Lear è morto a Mosca”, in scena a Campo Teatrale fino a domenica 27, ne ha diverse caratteristiche. A cominciare dal numero di attori in scena, nove. Alessandro Treccani, Leonardo Ceccanti, Davide De Togni, Anna Vittoria Ferri, Michelangelo Nervosi, Tommaso Pioli, Annalesi Secco, Laura Taddeo, Altea Bonatesta, ed Eugeniu Cornitel vengono dalla scuola Galante Garrone di Bologna e, alle prime battute, sorprendono con una recitazione antinaturalistica che può lasciare un po’ disorientati, finchè non si coglie che anche così entrano nel corpo dei colleghi che stanno interpretando, Solomon Michoels e Veniamin Zuskin, le anime del teatro Goset di Mosca, che proponevano nella Russia staliniana un teatro che riusciva a non avere quasi mai un posto vuoto malgrado fosse recitato in yddish. (e questa messa in scena, di quella tradizione, conserva la peculiare ironia). Era sufficiente consegnare allo spettatore una sinossi all’ingresso e lasciare che il teatro semplicemente accadesse, grazie a loro, per dimostrare quanto la lingua del teatro travalicasse quelle degli uomini senza perdere d’un grammo in efficacia.
Per questo, per la riscrittura dei codici coevi, o per l’impossibilità di piegare l’arte al potere, entrambi moriranno, nel buio di finti incidenti, uccisi dalla dittatura decisa a spegnere le voci libere dell’arte: anche in scena, la loro storia e la loro morte si moltiplica nelle molte notti dei poeti assassinati che li vedranno raggiungere nell’altrove che – come solo il teatro può fare – dialoga con il loro presente e anche con il nostro, Marina Cvetaeva, Osip Mandel’stam, Les Kurbas e molte e molti altri. Anche per tutti loro – in un crescendo di precisione ed efficacia recitativa, la voce di Michoels e Zuskin si leva a rivendicare l’urgenza e la necessità del ruolo politico del teatro (anche) quando è semplicemente teatro, al suo meglio. Perchè, se inteso nella pienezza del suo valore, anche portare in scena Re Lear, la sua solitudine e la sua eredità da tramandare è, nel concreto, un atto di resistenza, di fronte a un potere che diventa qui – immagine esilarante ed evocativa – un grottesco convegno di marionette caricaturali e senza nerbo se non l’attore medesimo che raccontandole agisce anche sulla società.
E su quella che si potrebbe chiamare anima culturale russa, a cui ogni forma di dittatura – compresa quella contemporanea – non può che essere allergica, e che in questa messa in scena è fatta, più che di parole, dei corpi degli attori, guidati da Vera della Pasqua in una serie di scene coreutiche di grande accuratezza e fascino. Accanto all’intenzione politica, infatti, ad affascinare di questo lavoro è soprattutto il poetico e intenso riflettere sul teatro e il suo farsi, e al contempo la varietà delle soluzioni sceniche: un compendio di quel che il teatro sa essere e del motivo per cui anche una vicenda risalente a quasi un secolo fa non sconta in nessun modo il tempo che passa. Se infatti la prima apertura di sipario del Goset risale agli anni Venti del secolo scorso – scenografo un “certo” Marc Chagall – le danze della morte messe in scena per evocarlo, il dialogo tra chi è e chi è stato, e tra interprete e interpretato, tra il matto sheakespeariano e chi se ne riveste, restituiscono anche all’oggi la forza di un teatro che ha lasciato, appunto, un’eredità, forse nel modo un po’ carbonaro in cui due donne delle pulizie senza nome (Irina, una donna e tutte) rifiuteranno di bruciarne tutte le testimonianze e le nasconderanno sotto i vestiti per consegnarle a chi, in futuro, saprà portarlo altrove.
Un teatro in cui tutti gli artifici i linguaggi, dal canto alla danza, non servono a far sfoggio di pretese nuove visioni di registi intellettuali, ma sono al servizio di un racconto. Basta una scala in orizzontale e un paio di corde, un piccolo teatrino di drappi rossi e pesanti cappotti scuri segnati dalla polvere delle vite che sono state, e ne esce un lavoro difficile da restituire quanto da dimenticare. Un ottimo modo per festeggiare i cinquant’anni di carriera di Cesar Brie, che in scena si mescola agli attori fino a isolarsi soltanto per segnare la fine di quest’esperienza (e della citata anima russa?) con gli stessi colpi di bastone che nella tradizione segnano da dietro il palco la chiamata al silenzio e l’inizio della magia della scena. Ma che, al contempo, pare suggerire, non disgiungeranno mai né l’interprete né lo spettatore dall’individuo che, attraverso l’arte interpreta il suo tempo. Lo testimoniano le parole di Boris Pasternak su cui, anzichè far scendere il buio, dopo gli applausi, si fanno accendere le luci: “Scopo della creazione è il restituirsi,non il clamore, non il gran successo. […] Altri, seguendo le tue vive tracce, faranno la tua strada a palmo a palmo, ma non sei tu che devi sceverare dalla vittoria tutte le sconfitte. E non devi recedere d’un solo passo dalla tua persona umana, ma essere vivo, nient’altro che vivo, vivo e nient’altro sino alla fine”.