Online vita dura, ma possibile: la strategia del Post

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Francesco Costa, il cofondatore del Post che ha compiuto 5 anni: per farcela spese all’osso, duttilità, tanto lavoro e ricerca della qualità

Alzi la mano chi non conosce il Post, chi non ha mai letto una delle loro storie “spiegate bene”, chi non ha mai beneficiato dei loro articoli-spiegoni per capire di più della notizia del giorno di cui tutti parlano. Il giornale online diretto da Luca Sofri (un po’ quotidiano tradizionale, un po’ aggregatore di notizie) ha festeggiato quest’anno i cinque anni di attività. Francesco Costa, giornalista e co-fondatore del Post, fa qui un bilancio su questo primo quinquennio di presenza online. Ma anche dello stato di salute del giornalismo italiano, della crisi dei quotidiani e delle strategie che i giovani giornali online (ne ha scritto di recente qui Studio )dovrebbero adottare per sopravvivere in  questi anni difficili per il settore dell’informazione.

Quest’anno il Post ha compiuto 5 anni. Come sta andando il giornale?
Molto bene, anche perché il solo fatto di essere qui a parlarne, di essere ancora vivi, non era per niente scontato all’inizio. In questo momento storico tutti i giornali fanno molta fatica a finanziarsi, da realtà affermate come la Repubblica e il Corriere della Sera ai giornali piccoli, appena nati. Noi siamo tra questi ultimi, e scontiamo il fatto di non avere una rendita di posizione legata a un “brand” famoso. Tuttavia dopo cinque anni non solo siamo ancora qui, ma siamo anche riusciti a centrare il cosiddetto break even: siamo arrivati a un punto in cui il giornale incassa quello che spende, non è più in perdita. Ora non vogliamo semplicemente fermarci qui e “occupare spazio”, ma reinvestire i capitali che stanno entrando per continuare a fare crescere il Post.

Avete già idee su come muovervi?
Un miliardo! Vorremmo innanzitutto ampliare la redazione, coprire più news e coprirle meglio. Ci piacerebbe rafforzare molti settori di cui oggi ci occupiamo in modo un po’ acrobatico. Oggi al Post lavorano tredici persone (quando siamo partiti eravamo in cinque) che si occupano di tutto: dagli esteri allo sport, alla politica… Inoltre pensiamo di incrementare il reporting originale, cioè la produzione di articoli che non siano aggregati di storie pubblicate da altri, e nemmeno i nostri “spiegoni” (gli articoli in cui mettiamo in ordine tutte le puntate precedenti delle storie di cui parliamo): vorremmo scrivere più articoli con notizie nostre, trovate sul posto dai nostri giornalisti facendo il lavoro giornalistico tradizionale.

Accennavi poco fa al difficile momento storico del giornalismo: quali sono secondo te i principali problemi dell’informazione italiana?
Il grosso problema in Italia è la confusione tra crisi dei giornali e crisi del giornalismo. Esiste una crisi dei giornali, che è di natura economica: costi troppo alti e pubblicità che rendono sempre meno. Vale sia per i giornali cartacei, i cui lettori oggi sono pochi, sia per i giornali online: la pubblicità su internet rende pochissimo, pochi centesimi di euro ogni non so quanti clic. Ciò è una minaccia per la sopravvivenza del giornalismo; a meno che l’economia riparta in modo incredibilmente propulsivo, cosa improbabile, noi giornalisti siamo costretti ad inventare modi nuovi per finanziare le nostra attività. Il vero rischio però è un altro.

Cioè?
Che questa crisi dei giornali diventi un alibi per giustificarne un’altra: la crisi del giornalismo. Molte testate, anche a causa della crisi economica, hanno deciso di ridurre la qualità del prodotto che offrono. È un comportamento autolesionistico. Come puoi, in una fase di crisi, vendere un prodotto di bassa qualità?

In cosa consiste questa crisi di qualità?
Riguarda i contenuti e la verifica delle fonti, ma anche la scrittura, l’originalità, la capacità di lettura del mondo. Ti faccio un esempio. Poco tempo fa, un grandissimo quotidiano italiano, riportando la storia di un ragazzo morto dopo avere assunto dell’ecstasy in una discoteca, titolava: Le nuove droghe che minacciano i giovani. Ora, l’ecstasy è in giro da almeno 15 anni, quindi se scrivi “le nuove droghe” parlando di ecstasy vuol dire che non hai minimamente il polso del paese che stai raccontando ai tuoi lettori. Questo in parte è dovuto al fatto che le redazioni italiane spesso sono molto anziane, soprattutto nei grandi giornali, e di conseguenza è inevitabile avere un approccio di un certo tipo. Non è solo colpa dei singoli giornalisti, è una questione generazionale e di abitudine a fare le cose come sono sempre state fatte. Questo secondo me è il principale problema del giornalismo in Italia: molte persone che lavorano nel nostro settore stanno usando la crisi come alibi per abbassare la qualità del prodotto.

Non pensi anche che il giornalismo italiano faccia troppa confusione tra fatti e opinioni? Personalmente apprezzo nel vostro giornale il tentativo di essere fedeli a questa ovvia, ma poco rispettata distinzione.
Al Post quando scriviamo un pezzo cerchiamo di non farci influenzare dalle nostre opinioni e, se la notizia riguarda un tema molto discusso, citiamo i commenti dei diversi attori in causa. Al tempo stesso, però, non tentiamo di perseguire un’assoluta neutralità: è giusto che il lettore sappia che noi su certi temi abbiamo certe idee ed è giusto che egli ci giudichi anche sulla base di questo. Preferiamo tenere una linea editoriale chiara, non siamo dei fanatici del principio della separazione tra fatti e opinioni. La strada migliore, secondo noi, è essere trasparenti, non cercare di fregare il lettore, non fare articoli che in modo surrettizio tentino di far passare un’opinione. Ma questo è un principio che dovrebbe valere per tutti.

Con quali mezzi le redazioni possono vincere la crisi del giornalismo, o almeno sopravviverle? A questo proposito pensi che il Post sia un modello a cui puntare, un esperimento replicabile?
Se vogliamo fare un discorso puramente economico, il Post non è un buon modello a cui fare riferimento. Se l’obiettivo è massimizzare le visite, quindi gli introiti, funziona molto di più il click-baiting. Questo è garantito. Non è neanche necessario inventarsi bufale; per esempio, l’anno scorso un calciatore delle giovanili del Milan ha avuto un grave incidente stradale. Era un ragazzo delle giovanili che nessuno aveva mai sentito nominare, ma alcuni quotidiani hanno pubblicato articoli con il titolo “Calciatore del Milan gravissimo dopo l’incidente”, ovviamente senza mettere il nome. In questo modo i clic sono assicurati: le persone su Facebook, vedendo il link, vogliono subito scoprire chi è questo calciatore del Milan. Questi sono dei trucchetti, anche banali, piccoli, ma efficaci nella loro furbizia. Secondo me alla lunga infastidiscono il lettore, ma garantiscono un sicuro introito in termini di clic. Noi è come se stessimo correndo la maratona con una gamba sola, rifiutando questo modo di lavorare partiamo già penalizzati. Dal punto di vista economico, conviene molto di più usare i trucchetti.

Se questi sono i pro, i contro?
Non puoi sapere quanto dureranno i trucchetti. Facebook ha degli algoritmi e penalizza chi fa click-baiting; Google sanziona chi copia-incolla gli articoli. In definitiva credo che, nel lungo termine, la nostra strada sia più sicura anche dal punto di vista economico. Noi comunque abbiamo intrapreso questa strada per altri motivi: volevamo fare un buon giornale, ovviamente cercando di farlo stare in piedi, ma il nostro obiettivo era innanzitutto offrire un prodotto di qualità. La strategia più efficace è ridurre i costi al minimo, non sprecare nemmeno un euro.

In che modo si possono tagliare i costi?
Bisogna essere disposti a lavorare parecchio, a occuparsi di tutto. I costi si abbassano, banalmente, lavorando di più. Al Post scriviamo anche 4-5 articoli a testa in un giorno. È chiaro che sono articoli che non comportano un lavoro di inchiesta, ma non sono nemmeno diversi dalla maggior parte degli articoli che si trovano sui giornali di carta. La differenza è che spesso, nel caso dei quotidiani cartacei, l’autore dell’articolo non ha fatto nient’altro tutto il giorno. Alcuni colleghi non scrivono nemmeno un articolo al giorno. Al Post ciò è impensabile. Un’altra strategia che adottiamo per abbattere i costi è tagliare tutta una serie di spese presenti nei bilanci dei grandi giornali. Dai viaggi, che non facciamo, alle mazzette dei giornali: noi non abbiamo ogni mattina sulla scrivania la classica pila di quotidiani, ma siamo abbonati alle versioni in pdf di poche testate, che condividiamo tra noi. A mio parere la ricetta giusta è questa: costi bassi e numeri più alti possibile, sforzandosi sempre di mantenere una propria identità. Per noi fino qui sta funzionando.

Secondo te, chi oggi volesse dare vita ad un nuovo giornale online, si troverebbe di fronte a una impresa ancora possibile?
Sì, certo. Però non è un business facile, se vuoi un business più sicuro apri un negozio di hamburger (e nel caso sappi che ti ricompenserei in stima e denaro). I dati oggi dicono che i giornali non funzionano; il mercato può continuare ad andare molto male, ed è ciò che preoccupa di più gli editori. In ogni caso, dopo la crisi non si tornerà alla situazione precedente, perché il mondo nel frattempo è cambiato. Ormai siamo fuori dalla recessione, ma gli investitori non torneranno a spendere quanto spendevano prima: hanno scoperto che possono fare affari investendo meno in pubblicità e probabilmente continueranno a farlo. Bisogna trovare metodi nuovi per finanziare l’attività giornalistica. È faticoso, difficile, complicato, ma non è impossibile.

Immagine di copertina: Sascha Müsse

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