Il dado è tratto. Forse. Il prossimo sovrintendente del teatro sarà Dominique Meyer ma da quando ancora non è chiaro. In attesa di saperne di più cerchiamo di ricostruire l’intricata vicenda di una successione difficile facendo quattro conti in tasca al teatro d’Opera più blasonato del mondo
La Scala ha deciso. Definitivamente. Forse. Il prossimo sovrintendente del teatro sarà Dominique Meyer, 64 anni, francese, alsaziano, bi-trilingue, già direttore generale dell’Opéra di Parigi e dell’Opera di Losanna, direttore anche artistico del teatro degli Champs-Ėlysées, dal 2010 alla Staatsoper di Vienna.
Da quando lo sarà? Calma: dal 2020 se si sceglierà di far cessare il rapporto con Alexander Pereira alla scadenza del suo contratto; dal 2022 se si opterà per una prorogratio, disciplina in cui l’Italia non ha mai avuto avversari.
Quando si deciderà il “quando”? Nella prossima riunione del cda il 28 giugno. Non prima? No, perché il 24 sono al vaglio le candidature per le Olimpiadi invernali, e in Italia tutto (non) si decide tra un’elezione e l’altra, tra un test politico e uno amministrativo.
Se la nomina di Meyer rimarrà ferma fino a venerdì l’altro (al momento la posizione ufficiale è: “non sarà più Alexander Pererira”), molte cose non da poco restano incerte. Ci sono “da capo” da tagliare, luoghi comuni da correggere e bugie da smentire.
Ritornello n.1. Italia sì, Italia no. In questi giorni di quiz-candidature, un da capo noto e noioso si è ripetuto senza variazioni: “Dopo due stranieri, restituiamo la Scala agli italiani”. Al nome Meyer, patrioti e sovranisti hanno lacrime da spargere o forte irritazione da spendere. Con ragione? No, perché l’italianità di un teatro la decide e la certifica il Direttore Musicale, che a Milano è il milanese Riccardo Chailly. Se la Scala è, come tutti dicono e non praticano, un teatro internazionale, il suo sovrintendente dev’essere semplicemente, o perfino, un uomo che ha il mondo sulla punta delle dita. Dunque, nel novanta per cento dei casi, uno straniero, perché di direttori, manager o sovrintendenti con amicizie globali e competenze multiple in Italia non se ne vedono: non esiste da noi una “scuola” o una tradizione che ne favorisca la nascita e ne alimenti la professionalità. Come solida tradizione vantiamo la nomina politica, tutt’altro che estinta.
Gli italiani dei quali si è alzato il nome per la candidatura alla Scala sono in entrambi i casi “conferiti” al ruolo di sovrintendente da ambiti diversi. Carlo Fuortes (Opera di Roma) viene da studi economici ed esperienze amministrative, ha profilo di manager; Fortunato Ortombina (La Fenice di Venezia) è uno dei migliori nostri direttori artistici (anche alla Scala durante l’ultima éra Muti e la prima éra Lissner), non poco “costretto” qualche anno fa ad assumere anche la sovrintendenza della Fenice, dove lavora benissimo, ma appunto nella quiete della laguna. Potrebbe tornare alla Scala accanto allo straniero Meyer? Chissà. Un pensiero si può fare. Lui lo farebbe? Bisogna chiederglielo.
Ritornello numero 2 (e bugia n.1). “Quando ho preso in mano la Scala, era sull’orlo del baratro”, ha detto e scritto Alexander Pereira in questi giorni in cui la sua posizione si faceva instabile sulla poltrona avorio e oro di via Filodrammatici. Un altro “da capo” già sentito: non c’è sovrintendente che subentri in un teatro sano; sempre in una realtà decotta. Peccato che in questo caso non sia vero: i nove anni di gestione Stéphane Lissner, sovrintendente francese ora all’Opéra di Parigi, si sono chiusi tutti, indistintamente, con bilanci in pareggio sottoscritti e certificati da Consigli di Amministrazione non di meno alto profilo dell’attuale (alcuni componenti sono gli stessi) e mai accondiscendenti. Il lavoro oscuro e pesante di procurare soci fondatori, sponsor e contributi privati per un bilancio che di solo “pubblico” non vivrebbe neanche tre mesi, era svolto con puntualità svizzera da Bruno Ermolli, Presidente del Cda (allora si chiamava così, non Consiglio di Indirizzo, che in materia di soldi significa nulla). I numeri di quei bilanci, che anche chi scrive ha nella memoria del computer, sono incontestabili. Tanto che ieri qualche consigliere li ha evocati.
Non solo. Negli ultimi tre anni della gestione di Stéphane LIssner, il margine di contribuzione vantava questi valori: 10, 40 (milioni di euro) nel 2012, 10,9 nel 2013 (anno verdiano e wagneriano in cui si allestì una Tetralogia venduta fuori cartellone e a un pubblico straniero con il 98% di riempimento sala, più una grande tournée in Giappone: a proposito di capacità produttiva); infine quasi 10,7 milioni nel 2014.
In questi anni 2017, 2018 e 2019, il margine di contribuzione è oscillato fra i 6 gli 8,5 milioni, con un decremento di più del 20%.
Che cos’è il margine di contribuzione? Il valore più importante in base al quale si giudica la sana amministrazione: indica il rapporto fra quanto si spende e quanto si incassa per produrre. Quindi, sebbene Alexander Pereira sia un vero maestro nel raccogliere fondi privati in ogni angolo del mondo (ma perché, Lissner non aveva già cominciato con diversi partner stranieri? solo che allora ne aveva meno bisogno), l’ingente mole dei suoi introiti non riesce a coprire i maggiori esborsi. In più, l’innalzamento dei prezzi e il rischioso aumento delle recite non ha fatto sorridere il parametro di riempimento sala. Dunque?
Ritornello n.3 (e bugia n.2). La Scala è comunque in ottima salute, con tutti i soldi privati che rastrella. No, ma non per colpa o insufficienza sua, bensì perché il primo, indiscutibilmente primo teatro d’Italia, certifica quanto l’intero sistema musicale del Bel Paese sia fondato sulle sabbie mobili.
Già negli anni della gestione Lissner il bilancio della Scala poteva articolarsi sullo schema ritenuto “virtuoso” del 3X3: un terzo di contributi pubblici (allora circa 42 milioni di euro), un terzo di fondi privati, un terzo di risorse proprie (abbonamenti, biglietterie, sfruttamento del “prodotto” artistico).
Me questo rapporto è tutt’altro che giusto, sano e certo. Quando in un budget generale di circa 120-125 milioni di euro, meno di un terzo è dato dal contributo pubblico (Stato, Comune, Regione, un tempo anche Provincia), parliamo di un bilancio sempre instabile. Basta un minimo scostamento nei parametri 2 e 3, e il banco salta. E anche questo si basa su un equivoco che è quasi un sopruso: dare per inevitabile che lo Stato possa e debba sostenere sempre meno, anno dopo anno, la cultura e la musica. Ma chi l’ha detto? Chi l’ha scritto? Naturalmente il Governo (i governi tutti) di una nazione che ha creato l’Opera. Dove sono nati Monteverdi, Corelli, Vivaldi, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Puccini.
Giusto, naturalmente, e inevitabile, che la Scala abbia 40 milioni (ora 38) su 125 per consegnare alla vita musicale e alla memoria i barbieri di siviglia, gli elisir d’amore, le aide, le traviate, le bohème e le turandot, per allestire le quali l’Opéra di Parigi riceve 110 milioni (su 190 di bilancio), e anche la vicina Monaco di Baviera circa 80 su 125 milioni. Il triplo, il doppio.
Il peccato originale di tutta questa malsana discussione sui soldi, italiani, europei o arabi, sta in questo: l’Italia della politica, che investe in cultura l’1,2 per cento contro il 2 e diversamente più della Francia e della Germania; che ha profuso circa dieci anni fa il suo genio nel progettare una riforma che obbliga le fondazioni liriche (di diritto privato) a procurarsi sul mercato i soldi per produrre di più e meglio, di fatto costringe realtà anche economicamente virtuose come la Scala a usare quei soldi non per migliorare il prodotto, ma per pagare gli stipendi e far funzionare la macchina. Quello per cui lo Stato dovrebbe essere garante. Ogni logica a testa in giù.
Alla fine, mentre ci si becca sul nuovo sovrintendente che dovrà ancora perdere il sonno per far quadrare conti che non stanno in piedi perché non possono stare in piedi (meglio un ignaro straniero), dobbiamo porci la domanda finale. Non è che il Teatro alla Scala, drogando i suoi bilanci nella dannata ricerca dei “privati” compia il perfetto harakiri? Lo Stato sarà felice di confermarsi nella convinzione che ritirarsi sempre più dall’unica cultura da esportazione del nostro Paese sia cosa giusta. Tanto poi ve la cavate sempre.