Una storia vera, una storia yemenita che però parla di milioni – 60 secondo l’Unicef – di giovanissime vittime di matrimoni forzati in molti paesi del mondo. Un film girato dalla prima videomaker e produttrice yemenita ispirato dalla vicenda della bambina che è riuscita a ribellarsi ad una destino di violenza e a divorziare. Come peraltro la regista che stasera è a Milano alla proiezione del suo lavoro al Festival dei diritti umani
La sposa bambina – stasera al Festival dei diritti umani di Milano e dal 12 maggio al cinema – è il lavoro della prima donna yemenita ad essere diventata filmmaker e produttrice, Khadija Al Salami, film che è anche una sorta di manifesto-appello a quei paesi in cui queste vicende, figlie di povertà, arretratezza culturale e patriarcato, sono ancora diffuse e tollerate. Nel mondo, secondo le stime dell’Unicef, sono 60 milioni le spose bambine, 2 milioni di loro hanno meno di 15 anni e ogni anno 70 mila tra loro muoiono per complicazioni legate alla gravidanza.
Nojoom (Reham Mohammed) è una bambina yemenita nata in una piccola tribù che vive nelle campagne. Il suo stesso nome, il cui significato originario è “le stelle”, viene dalla nascita storpiato dal padre con la sostituzione di poche lettere, trasformandolo in Nojoud, ovvero “nascosta”. La normalità della vita infantile di Nojoud viene interrotta quando il padre (Ibrahim Al Ashmori), costretto a far emigrare la famiglia dalla campagna alla città per una questione d’onore, non riuscendo a mantenere la numerosa famiglia vende la bambina dandola in sposa ad un trentenne in cambio di una consistente dote. Quest’ultimo promette al suocero di prendersi cura di Nojoud e di aspettarne la pubertà prima di consumare il matrimonio, ma, appena sottratta dalla casa paterna, la violenta e la costringe ad una vita di servitù, picchiandola quando cerca di sottrarsi ai suoi doveri di moglie-schiava.
Dopo circa due anni di maltrattamenti fisici e psicologici, la bambina cerca aiuto e conforto nella sua famiglia d’origine. Tuttavia né le donne, che pur conoscendone la condizione di sofferenza sono incapaci di ribellarsi alla loro posizione di sottomissione, né il padre, che non considera importante l’incolumità della figlia, ascoltano il grido d’aiuto di Nojoud.
Incapace di tollerare le continue brutalità domestiche, la bambina, alla sola età di dieci anni, trova il modo di scappare dalla segregazione coniugale per arrivare davanti ad un giudice del tribunale di Sana’a dove, aprendo con incredibile coraggio una strada mai percorsa prima, chiede e ottiene il divorzio.
La sposa bambina, film vincitore del premio come Miglior Film al Festival International du Film de Dubai (2014), è ispirato ad una storia vera, che la protagonista Nojoud Ali ha raccontato, insieme alla giornalista francese Delphine Minoui, nel libro I am Nojood, age 10 and divorced , pubblicato nel 2009 da Michel Lafon, uscito in 35 paesi e tradotto in 16 lingue.
La regista Khadija Al-Salami ha girato più di 25 documentari, soprattutto legati alla condizione della donna nello Yemen e, con questo primo lungometraggio, è al suo debutto a livello internazionale. Le tematiche del suo cinema hanno una profonda e importante relazione con la sua storia personale che ripercorre le dinamiche della vicenda della sua protagonista: anche Al-Salami infatti è stata data in sposa ad un uomo di oltre vent’anni più grande di lei a soli 11 anni, così come la madre prima di lei. Questa terribile tradizione s’interrompe quando, ancora piccola, riesce, come Nojoud, a ribellarsi e a divorziare, ottenendo così la possibilità di andare via dallo Yemen e continuare gli studi prima negli Stai Uniti e poi a Parigi.
In Yemen è quasi la normalità per le ragazze minori di 18 anni essere già date in moglie, e ci sono spesso anche casi di spose di 8-10 anni soprattutto nelle zone rurali, dov’è ambientato il film: sono bambine o giovanissime cui viene negato il diritto all’infanzia, comprate, vendute, private della libertà di scelta e sottoposte ad una continua violenza domestica. Costrette a consumare il matrimonio non avendo ancora raggiunto la pubertà, a causa di parti difficili e precoci, molte sopporteranno conseguenze fisiche per tutta la vita, tante non sopravvivono. Il fenomeno delle spose bambine non riguarda però solo lo Yemen: nelle zone dell’Asia meridionale il 46% delle minorenni è maritata, Afghanistan e Bangladesh sono i paesi con il tasso più alto di matrimoni forzati , soprattutto tra i 9 e i 15 anni, molto diffusa la pratica anche nell’Africa sub-sahariana, mentre, secondo Amnesty international, nell’area del Maghreb, quadri legislativi lacunosi non tutelano adeguatamente le donne dalla violenza e da nozze imposte, a dimostrare come bisogna agire sul piano culturale, economico e sociale ma anche legislativo. Unicef e Unfpa hanno lanciato nel marzo scorso il Global Programme to Accelerate Action to End Child Marriage che coinvolgerà famiglie, comunità, governi e giovani ed è parte di un impegno globale per prevenire i matrimoni infantili in 12 paesi dell’Africa, Asia e Medio Oriente che hanno il tasso di matrimoni infantili tra i più alti.
Accanto ai dati, le storie e la forza delle testimonianze. Al Festival dei Diritti Umani, c’è anche, fino a domenica 8 maggio alla Triennale la mostra fotografica “Sheroes” sulle spose bambine in Burkina Faso, omaggio di Amnesty International Italia al grande lavoro di Leila Alaoui, la fotografa franco-marocchina rimasta uccisa negli attacchi del 15 gennaio 2016 a Ouagadougou. E stasera in sala, alla proiezione del suo film, ci sarà la regista Khadija Al-Salamia raccontare di Nojoud, esempio di come una sola persona possa avere il coraggio di cambiare il proprio destino, aprendo una strada anche per altre.