La scrittura per Michele Mari nasce da un atto di cannibalismo, da una vorace ingordigia, che lo spinge a divorare le opere del passato per restituirne la forza espressiva, i personaggi e gli stilemi nei suoi romanzi; allo stesso modo in cui le prodigiose creature marine si cibano delle storie dei naufragati per infonderle ai naviganti.
Introvabile da anni, dimenticato nel mare magnum della letteratura contemporanea, La stiva e l’abisso di Michele Mari (edito da Bompiani nel 1992 e riedito da Einaudi nel 2002 e 2018) riemerge dagli abissi come uno dei fantasmagorici tesori di Stevenson. È da questo forziere che i fantasmi e le ossessioni dei grandi scrittori del mare – come Conrad, Melville, Stevenson, Salgari e Defoe – appaiono, vivificati dalla penna di un giovane Michele Mari, alla sua terza prova dopo Di bestia in bestia del 1989 e di Io venia pien d’angoscia a rimirarti del 1990.
Costretto dalla bonaccia, un galeone spagnolo (il cui nome è alluso, ma mai esplicitato) è fermo in mezzo all’oceano, avvolto da un’immobilità innaturale, da una placidezza inquietante e asfittica, che annebbia e ottunde giorno dopo giorno i membri dell’equipaggio, i quali vagano, come anime dannate, sul ponte del veliero.
Alla guida dell’imbarcazione è il Capitano Torquemada, costretto all’immobilità da una cancrena alla gamba che gli impedisce di muoversi e di assolvere al suo ruolo. Isolato nella sua cabina e impotente di fronte alla progressiva autodistruzione che si abbatte sull’equipaggio, Torquemada non può che affidarsi alle narrazioni di Menzio, il Secondo di bordo, un uomo triviale, arrivista, assetato di potere e ricchezza, che in seguito ad alcuni strani eventi inizia a sospettare la presenza di un tesoro nascosto.
Nel cuore della notte i marinai vengono visitati da bizzarre creature marine, pesci meravigliosi dalle squame iridescenti e bagnate, provocando nella ciurma un incontrollabile furore erotico. Nell’amplesso i pesci trasmettono ai marinai un patrimonio di storie e favole, assimilate a loro volta divorando corpi di naufragati in mare. La rappresentazione dell’osceno assume i contorni del fantastico grazie a un linguaggio sospinto e visionario, che fa della concupiscenza un mezzo di elevazione spirituale.
Ma qual è il senso di un tale delirio allucinatorio?
La scrittura per Michele Mari nasce da un atto di cannibalismo, da una vorace ingordigia, che lo spinge a divorare le opere del passato per restituirne la forza espressiva, i personaggi e gli stilemi nei suoi romanzi; allo stesso modo in cui le prodigiose creature marine si cibano delle storie dei naufragati per infonderle ai naviganti.
Il mare e le sue storie muovono l’azione, richiamando a sé tutti i marinai; soltanto Menzio, il Secondo di bordo, è immune al magnetismo del mare e delle portentose creature che lo abitano.
Da lupi di mare a spiriti contemplativi, i membri dell’equipaggio si trovano improvvisamente padroni di un linguaggio ardito, infarcito di latinismi, riferimenti biblici e letterari. Ma è con il personaggio di Ishmail che la lingua può dispiegarsi in tutta la sua potenza corporea attraverso un pastiche di arabo, greco, ebraico, genovese, francese, napoletano e milanese, che dà ai discorsi del personaggio un tono oracolare. In effetti, Ishmail, che ha trascorso la sua esistenza da clandestino passando da un veliero a un altro, emerge dall’oscurità della stiva come un vate, un profeta dai presagi sinistri.
Se a sorreggere la figura di Ishmail (il cui nome è un evidente riferimento a Moby Dick) è la prepotenza di un eloquio artificioso, i personaggi del Capitano Torquemada e del suo Secondo si costruiscono in contrapposizione, inscenando una lotta tra Bene e Male, dove nessuna delle due forze riesce però a trionfare sull’altra. Seppur minacciato e condizionato da forze irrazionali, Torquemada va incontro al suo destino come un eroe tragico, abbracciando il Fato con nobile accettazione.
I lettori di Mari sono abituati alle ardite evoluzioni della sua penna, in grado di evocare realtà chimeriche, frequentate da fantasmi e squarciate dalle ossessioni; ma ne La stiva e l’abisso la spirale del linguaggio si fa vorticosa al punto da prendere il sopravvento sul tempo e sullo spazio. La qualità narrativa dei personaggi in scena e delle situazioni sbiadisce vinta dalla prepotenza di un linguaggio morboso, che frena – in alcuni punti troppo bruscamente – il ritmo della storia.
Manca al romanzo quel profondo respiro narrativo che troverà una più compiuta realizzazione in Leggenda privata (Einaudi, 2017), un libro straordinario dove biografia e finzione si intrecciano fino a confondersi.
Se da una parte la complessità formale de La stiva e l’abisso può considerarsi un limite, d’altra parte è il sintomo di una ricerca autentica, di un’audace esplorazione intellettuale. Michele Mari fugge le semplificazioni e l’appiattimento per spingersi senza pudore in territori impervi e poco battuti dalla contemporaneità.