Il viaggio vale doppio se si aggiungono le indie totalmente urbane del regista Clément Cogitore che rivisita l’opera “Les Indes galantes” di Jean-Philippe Rameau. Da Bastille a Garnier per le due produzioni imperdibili dell’anno
Basta una sola domenica a Parigi per assistere a due delle produzioni davvero imperdibili dell’anno: Les Indes galantes a Bastille e La traviata a Garnier, con la linea 8 della metro che porta comodamente dall’una all’altra, sola andata da Rameau a Verdi, entrambi ripensati da artisti scelti con lungimiranza da Stéphane Lissner, ormai in scadenza all’Opéra, appena indicato come nuovo sovrintendente al San Carlo di Napoli.
Cominciamo dalle “Indie” di Rameau e del librettista Louis Fuzelier, che appartengono a una geografia fluida che spazia dai turchi, agli inca, ai persiani, ai “selvaggi” americani: non tanto un luogo, quindi, quanto un concetto. È l’esprit settecentesco che cerca di includere questi mondi lontani nel suo sistema razionale, lo stesso che porterà al “buon selvaggio” di Rousseau e che qui, nel 1735, in pieno colonialismo, intreccia esotismo e mitologia in un dialogo tra Occidente e Oriente manifestamente fasullo, ma pieno di fascino e mistero. L’opera ha un prologo e quattro atti amorosi in giro per il mondo, come una fuga mentale dalle guerre europee in cerca di avventure galanti, da alternare a balletti e catastrofi naturali che puntano direttamente alla meraviglia.
Scordiamoci quindi roccocò, appariscenze e vistosità, piume e nuvole barocche alla Pizzi, cui peraltro si doveva l’unica soluzione scenico-registica data finora al titolo: le Indie del regista Clément Cogitore sono totalmente urbane. Lo spettacolo è quasi tutto giocato sulle coreografie di Bintou Dembélé, tortuose e aggressive, con la magnifica compagnia di danza Rualité alle prese con krumping, vogueing, hip hop e acrobazie di ogni tipo. Perché per Cogitore l’esotico non bisogna cercarlo lontano, non è altrove, ma tra noi, magari nascosto in una ballroom di periferia.
Il momento più elettrizzante è senza dubbio il rondò del quarto atto, la “dance du Grand Calumet de la Paix”, già presentata da Cogitore in un cortometraggio del 2017 che può dare dipendenza, in cui la danza di riconciliazione tra colonizzatori e colonizzati diventa una sorta di scontro coreografato, uno sfogo collettivo che esorcizza la collera dei vinti, degli altri, degli ultimi, vittime perenni di nuove tremende modalità di colonizzazione. E non manca nemmeno un braccio meccanico che sbuca dall’alto per estrarre da un cratere in mezzo al palco un relitto sospeso, o un ipnotico sole-schermo in led. Soluzioni che sanno di meraviglia barocca e che fanno da sostegno tecnologico a uno spettacolo che non potrebbe avere più energia, con la sinuosa direzione di Leonardo García Alarcón, alla guida della Cappella Mediterranea, e un cast di buon livello che può contare su Sabine Devieilhe, accanto a Julie Fuchs, Jodie Devos, Matthias Vidal, Stanislas de Barbeyrac, Edwin Crossley-Mercer, Alexandre Duhamele Florian Sempey, che tra alti e bassi si lasciano tutti coinvolgere nell’esaltante macchina di Cogitore.
Quanto alla nuova Traviata vista a Garnier, si può dire che sia il riscatto di Lissner dopo la fischiatissima produzione scaligera Gatti-Tcherniakov del 2013, passata alle cronache operomani come “Traviata delle zucchine”. Manco a dirlo, questa di Mariotti-Stone è già “La traviata della mucca”: sempre per colpa dell’atto campagnolo, dove Violetta nella vecchia fattoria munge una mucca in carne e ossa, sbucata all’improvviso nella bianchissima scena rotante pensata da Simon Stone, che a ogni giro svela una nuova sorpresa.
Ma la novità di questa Traviata non è certo di natura bovina, non è l’ambientazione moderna, né tantomeno il flirt via Whatsapp tra Violetta e Alfredo. Tutto gira intorno al fatto che Violetta è una influencer, idea non casuale né banalmente provocatoria, perché Stone ha ben chiaro che oggi una influencer, a qualsiasi grado di “ferragnizzazione”, è probabilmente il personaggio più idolatrato e contemporaneamente detestato che ci sia. Certo, ci sono gli n-milioni di follower pronti all’emulazione, ma ci sono altrettanti haters di qualsiasi schieramento politico che non vedono l’ora di riversare il loro disprezzo su presunte immoralità formato Instagram, in vendita tanto quanto le grazie di una cortigiana nel demi-monde parigino. Tutto molto pertinente, con l’interessante effetto collaterale di un depotenziamento erotico del personaggio grazie a cui Stone arriva in modo più diretto alle sue fragilità.
Scordiamoci quindi le simbologie e le camelie, bianche o rosse che siano. Il punto qui è che Violetta ha il cancro, che sta alla tisi come il nostro secolo sta a all’Ottocento, e la sua è una morte come tante, in ospedale, con un gruppo di persone emotivamente smarrite che sembrano I testimoni di Téchiné: Violetta scompare nel fumo mentre sulle pareti scorrono le istantanee della sua felicità, in un flashback social che non lascia scampo. Come non lascia scampo la direzione di Michele Mariotti, che assiste e ci fa assistere alla fine di Violetta senza mai intaccarne la disperata vitalità, con sonorità sempre piene, in cui trovano spazio dettagli difficili da notare in una partitura come questa, proprio perché nota e stranota: il corno nel duetto del primo atto (sul “misterioso” di Alfredo), certi disegni degli archi di solito inudibili nei concertati, la violenza quasi sfacciata della marcia funebre nel finale, la lancinante freddezza senza vibrato dei preludi di primo e terzo atto. E non pesa nemmeno la sufficienza stentata del secondo cast, perché sia i cantanti (Zuzana Marková, Atalla Ayan, Ludovic Tézier), sia l’orchestra (in gran forma) seguono la drammaturgia timbrica che Mariotti ha in mente, e che rende persino Traviata un’opera nuova, attuale e commovente senza essere ricattatoria.
Immagine di copertina © Charles Duprat