Antonio Latella traduce Steinbeck: il suo Eden parla di conoscenza e di ignoranza, di peccato e salvazione, di amore e rifiuto
Il nuovo spettacolo di Antonio Latella, La valle dell’Eden, è una grandiosa sfida alle possibilità del teatro di gareggiare con la letteratura, alle prese con una sorta di albero genealogico della colpa e con ragionato cinismo ci mette di fronte a tutte le nostre responsabilità.
Ci sono momenti bellissimi, altri di interesse etico alla Singer, altri faticosi, data la mole morale dell’operazione. Ma sempre siamo di fronti a un evento, nel senso che davvero Latella spinge le possibilità della scena fino al limite estremo e si chiede egli stesso se esista un ostacolo tra la perfezione di un romanzo, come quello di Steinbeck del ’52, e l’imperfezione della creazione per il palcoscenico che è fatto anche di fatica e dove tutto, dice il regista, nasce per essere immediatamente dimenticato.
La valle dell’Eden (East of Eden in originale) è la storia più grande di tutte: la storia del bene e del male. Per Steinbeck stesso era la sua vera unica grande opera, più di Furore e si confronta direttamente con la Bibbia e quei più volte citati 16 versetti che raccontano come tutti noi siamo fuori dall’Eden, nella valle di Salinas, in California: non perché figli del peccato originale ma figli di Caino.
Però, anche su questo il regista insiste dedicando un atto intero alla disamina dei versi e dei concetti biblici, il libro si chiude con la parola ebraica Timshel, il cui significato è “tu puoi” e che nella Genesi si riferisce alla possibilità e alla capacità dell’essere umano di scegliere il proprio destino, insomma se essere buono o cattivo (sembra che le scelte siano chiare specie oggi).
Traducendo il capolavoro di Steinbeck, Latella organizza quattro lunghi atti (nella maratona no stop) dalle caratteristiche teatrali diverse, con citazioni di Santa Estasi (la centralità del tavolino, baricentro della famiglia, gli Atridi hanno lasciato il segno), ampliando la storia come nella pagina scritta.
Quindi passa per tre generazioni e non concentra tutto come accadde nel film di Kazan del ’55, trampolino di lancio per il mito di James Dean, alla lotta fratricida dell’ultima parte, fra Caino e Abele, i due gemelli Caleb e Aaron (e sul bisogno e il senso dei nomi c’è un lungo, variegato pensiero).
Questi arrivano però dopo aver visto gli altri fratelli Adam e Charles, avere ascoltato il servitore cinese e Samuel Hamilton, di origine irlandese, in parte vero protagonista.
Le memorie teatrali si sprecano: certo c’è il lavoro di Latella ma anche ricordi di Strehler nel sipario di ferro che si abbassa fino quasi alla fine lasciando una larga fessura, cosicché le prime due ore sono quasi tutte di spalle.
La prima parte è entusiasmante, con quel richiamo, chi lo vede li vede altrimenti pazienza, della figura di Dean, quando uno dei due ragazzi a turno si sdraia per terra con un gran cappello, i jeans, la lunga sigaretta, esattamente il poster del Gigante.
Gli altri stanno parlando della fatica di coltivare il terreno e di trovare l’acqua ma noi sappiamo che Dean è già perso nel sogno del petrolio. La seconda parte si fa più faticosa, anche se sempre interessantissima e di una teatralità concettuale nell’ampio spazio scenico vuoto fino all’arrivo della casa gabbia alla fine (citazione da «Francamente me ne infischio» da Via col vento).
L’ultimo atto è quello famoso dell’incontro tra i gemelli e la madre che scoprono non essere morta, ma tenutaria di una casa di tolleranza dopo aver sparato ad Adam, il marito, con una 44 magnum come l’ispettore Callaghan.
E qui le figure delle donne si fanno nell’evolversi teatrale più deboli e meno significative. Per il resto siamo tutti all’Est di Eden, all’East of Eden, come dice il titolo originale del libro di Steinbeck ridotto non depauperato in uno spettacolo kolossal di oltre 6 ore diviso in due serate, in scena a Bologna fino al 17 novembre, indi a Perugia, in maggio a Roma e si spera la stagione prossima a Milano, nella drammaturgia di Linda Dalisi che come sempre ha a lungo coltivato e zappato questo sogno con Latella.
In questo sogno c’è tutto il mito americano della conquista e del viaggio, c’è la migrazione che ora ci fa tanta paura, ci sono percorsi di vita che si incrociano e parole della Bibbia che si innestano nei destini umani, spesso particolari come quelli narrati in questo romanzo che si poggia sulle zolle di terra della California.
La valle dell’Eden parla di creazione e di sconfitta, di conoscenza e di ignoranza, di peccato e salvazione, di amore e rifiuto, anticipa Freud ma usa la Parola, unico modo per creare anche gli eventi del teatro (distinguendo bene tra percezioni e preconcetti).
Sulla parola lo spettacolo mette le sue radici anche quando nell’ultima ora gli attori faticano non poco a costruire e poi chiudere, sbarrare, inchiavardare per sempre nel buio di tegole e assi la casa del peccato della madre.
È un pezzo di palcoscenico estenuante e bellissimo nel suo modo di concepire il rapporto psicologico tra chiaro e scuro, tra fatica fisica e morale, tra innocenza e colpevolezza. E c’è sempre la sfida tra realtà e teatro, non a caso la prima ora di spettacolo è tutta a luci accese ma intanto «la malinconia del mondo invade l’anima come un gas» per citare una battuta che verrà poi ma che è già nascosta in scena dall’inizio.
Caino abita a Est dell’Eden, benvenuti quindi nella valle di Solinas e ci sentiamo tutti dentro quella parola ebraica, col senso del peccato «accovacciato alla tua porta» perché l’essere umano è l’unico animale che si sente colpevole. Recitano sette attori spesso in stato dialettico di grazia, che non premono sul melò ma razionalizzano anche i sentimenti e le passioni e le nevrosi, oltre a centellinare le parole come fece la Compagnia dei Giovani con Pirandello.
Sono bravissimi Michele di Mauro e Massimiliano Spaziani, irrompono vitali i gemelli Christian La Rosa ed Emiliano Masala, Annibale Pavone merita un plauso perché dà le spalle ma ci provoca emozione; le donne sono Elisabetta Valgoi e Candida Nieri che alla fine legge l’ultima pagina del romanzo, regalando all’eccitante serata, un fin de partie molto brechtiano. Ora c’è Amleto che bussa alla porta di Latella e poi, sua promessa, magari si butta su Proust.
FOTO © BRUNELLA GIOLIVO