Londra, anno 2000, la verità sull’Olocausto deve difendersi. In un tribunale

In Cinema

Una gran prova collettiva di attori (Rachel Weisz, Tom Wilkinson, Timothy Spall) dà luce al racconto, tratto da un episodio vero, di un singolare processo svoltosi tra il 1996 e la fine dello scorso millennio. Uno storico inglese “negazionista” portò sul banco degli imputati una scrittrice americana e la sfidò a dimostrare, ma con le armi di un dibattimento giuridico, l’effettiva realtà dello sterminio degli ebrei

Fra il 1996 e il 2000 si tenne a Londra un ben strano processo, ricostruito ora dal 73enne regista e produttore inglese Mick Jackson nel suo film La verità negata. Sul banco degli imputati c’era una scrittrice americana, Deborah Lipstadt (Rachel Weisz), titolare della cattedra di studi sull’Olocausto alla Emory University di Atlanta. Nei panni dell’accusatore, il professor David Irving (Timothy Spall), storico inglese diventato famoso per una serie di libri in cui dichiarava che lo sterminio nei lager nazisti non era mai esistito, era una frottola, un’invenzione della potente lobby ebraica. Proprio per questo la Lipstadt l’aveva giustamente definito “negazionista” in un suo libro. La risposta di Irving era stata a dir poco spiazzante: l’aveva citata in giudizio accusandola di diffamazione, e pretendendo che la causa fosse discussa a Londra.

Per Deborah questo vuol dire affrontare un processo in base alla legislazione britannica, ma soprattutto accollarsi l’onere della prova. Come le spiegano subito i suoi avvocati, un team agguerrito guidato da Richard Rampton (un Tom Wilkinson superbo), ciò significa una cosa sola: per vincere la causa dovranno dimostrare la realtà storica dell’olocausto. Niente di meno.

È una storia assolutamente vera, questa, e il pregio fondamentale del film è raccontarla senza volerla trasformare in qualcosa d’altro, quindi con onestà, rigore, semplicità, e senza inutili scivolate in quei meccanismi di suspense e colpi di scena a catena che sono tipici del thriller, soprattutto nella sua versione legal. Scelte che forse avrebbero prodotto un film più facilmente fruibile, più immediatamente coinvolgente per il pubblico, più commerciale insomma, ma avrebbero un po’ snaturato il senso dell’intera operazione.

Il nucleo è infatti tutto qui, dentro un’aula di tribunale, dentro la logica di un balletto di codici e cavilli, esami scientifici e analisi dei dettagli, di un duello in punta di diritto (apparentemente) lontano da ogni emozione, ma capace di interpellare comunque lo spettatore, parlare alle nostre coscienze e ribadire ciò che forse ormai ci sembra ovvio ma non per questo va dimenticato: che il male del mondo che si è incarnato nella barbarie scientificamente organizzata di Auschwitz non è stato un unicum. Purtroppo, è una possibilità della storia che di continuo si ripresenta, e contro la quale non bisogna stancarsi di combattere, anche attraverso l’esercizio paziente della memoria e della ricostruzione storica.

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È, questo, un lavoro sull’Olocausto dove non c’è posto per le testimonianze dei sopravvissuti e tantomeno per la facile commozione. Ma ciò non significa trovarsi di fronte a un film poco coinvolgente, soprattutto grazie all’ottimo lavoro fatto dal drammaturgo David Hare, autore di una sceneggiatura che riesce a dare aria e respiro a un’analisi precisa del potere delle parole e della forza trascinante della memoria. Una sceneggiatura che avrebbe meritato un regista meno banale di Jackson (di cui vengono in mente subito non-capolavori come Guardia del corpo e Volcano), ma che riesce comunque a decollare grazie alla magnifica gara di bravura in cui l’intero cast si impegna dalla prima all’ultima scena.

La verità negatadi Mick Jackson, con Rachel Weisz, Tom Wilkinson, Timothy Spall, Andrew Scott, Jack Lowden

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