Il grande scrittore e giornalista, al suo terzo film, prende “in prestito” un saggio di Florence Aubenas sulle lavoratrici precarie dei traghetti in viaggio nella Manica. Per mettere in immagini i nuovi (sotto) proletariati e i salari da fame degli anni 2000 nel ricco Occidente, ma anche per mostrare i risvolti emotivi dell’incontro tra mondi sociali e culturali lontani. Perché l’attrice francese interpreta in realtà una reporter che si è “infiltrata” tra le donne delle pulizie per testimoniare la loro dura esistenza
Non è la regia cinematografica l’attività principale di Emmanuel Carrère, scrittore (Limonov, L’avversario), e giornalista (fra gli altri, molto apprezzabili i suoi recenti reportage dal processo parigino sui fatti del Bataclan e dalla guerra in Ucraina) di livello mondiale: in quasi vent’anni è arrivato solo al terzo titolo, e i primi due film che ha girato, Retour a Kotelnitch e L’amore sospetto, ispirati da spunti autobiografici, risalgono all’inizio del secolo. Per Fra due mondi, ora in uscita dopo il passaggio alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2021, ha stretto un’alleanza con una bravissima collega, Florence Aubenas, nota per i suoi reportage su vari fronti di guerra che le sono costati la drammatica esperienza di un rapimento in Iraq durato cinque mesi: da lei ha preso, diciamo così “in prestito”, il libro inchiesta Le quai de Ouistreham (in Italia La scatola rossa), uscito una decina d’anni fa, per costruire attorno a un eccellente gruppo di protagoniste non professioniste (Hélène Lambert, Léa Carne, Emily Madeleine, Patricia Prieur, Evelyn Poesie), “guidate” dall’impeccabile Juliette Binoche che ha anche il merito di aver convinto Aubenas a permettere che il suo saggio diventasse un film, una potente vicenda collettiva di sfruttamento e amicizia. Che gioca con notevole efficacia e comunicativa la doppia carta dell’indagine sociologica e delle relazioni personali, allargate rispetto al modello librario più attento ai “dati di cronaca”. Il risultato è un film fino in fondo “alla Carrère”, scritto e diretto da lui con il solo aiuto in sceneggiatura di Hélène Devynck.
La storia che vedrete sullo schermo riproduce fedelmente la genesi e il contenuto del libro di Aubenas. Una famosa reporter, stanca di leggere (e scrivere) in astratto di paghe da fame, lavori usuranti, nuovi (sotto)proletariati, decide di fingersi lavoratrice delle pulizie di una società di Caen, nord della Francia. Ogni giorno, per tre volte in turni di un’ora e mezza, con molte decine di colleghe deve rendere abitabili le cabine di un traghetto (tempo a disposizione: 4 minuti a stanza, salario 7,69 euro l’ora netti) che attraversa la Manica da Ouistreham (già location del romanzo Il porto delle nebbie di Georges Simenon, da cui Marcel Carnè trasse un film mitico) a Southampton. Questa esperienza dovrebbe consentirle, accumulato un materiale sufficiente per scrivere un saggio, di tornare poi agli agi parigini da cui è partita. Con annessi sensi di colpa: che nel film di Carrère, grazie alla libertà conquistata rispetto al testo originario (peraltro lealmente confessata: “sono un partigiano del tradimento dei libri al cinema”) si fanno più grandi per il forte legame che nasce tra Marianne (questo il nickname scelto dalla scrittrice) e Christèle, la più ribelle e determinata fra le colleghe. Lei sì combatte con una vita insopportabile, al limite della miseria, e ha tre figli che cresce da sola, ma non per questo rinuncia ad affrontare con energia ogni giornata, con le fatiche inevitabili, le umiliazioni che comporta. Perché la sua è una lotta continua col mondo e gli altri.
Non è uno spunto nuovo quello del/della giornalista infiltrato/a in vari settori della società, gli esempi sono tanti, su carta (in Il grande bugiardo il tedesco Gunter Walraff molti anni fa indagò dal di dentro sulla casa editrice tedesca Springer), al cinema (Richard Gere si finse un homeless in Gli invisibili, 2014, e lui è realmente impegnato in organizzazioni umanitarie), fino alla tv, anche italiana: il giornalista Paolo Frajese si travestì da clochard per vedere – e mostrare – le loro reali condizioni di vita. Tra gli aspetti interessanti di queste strutture narrative c’è l’impatto che i protagonisti hanno, nella loro nuova vita simulata, con il mondo circostante: qui Marianne, che si presenta come una signora abbiente appena lasciata dal marito per una donna più giovane, inventa una passione per le pulizie che spera farà presa sull’ufficio di collocamento, i training center e le aziende interessate, tutti abbastanza facilmente ingannabili, a quanto sembra. Ma è quando inizia il lavoro, e in seguito all’incontro con le colleghe, dalla giovane Marilou alla madre single Christèle, povere di mezzi ma ricche di umanità, dure ma solidali, che iniziano i veri problemi per Marianne. Dismessa la corazza della cronista rotta a tutte le esperienze, sceglie di comunicare da donna a donna con chi di problemi, soprattutto materiali ma non solo, ne ha davvero molti più di lei. Ed è curioso che questa parte, la più forte emotivamente del film e sulla quale con evidenza Carrère punta molto, sia quella molto fiction e lontana dall’operazione iniziale di Aubenas.
Le quai de Ouistreham, che ha avuto un notevole successo, voleva raccontare la sottooccupazione in Francia e le nuove povertà, più che mettere a fuoco singole storie di lavoratrici. Carrère in più sceglie di sottolineare quanto sia difficile far comunicare mondi socialmente e culturalmente diversi. E anche raccontare, da intellettuale benestante, una classe sociale svantaggiata, operazione non priva di tratti autobiografici. Ma qui sorgono parecchi vistosi e spinosi interrogativi. E’ sufficiente far finta di diventare qualcun altro per portare in superficie, e comunicarla ad altri, la realtà di un mondo che non ci appartiene, raccontandolo dal di dentro come se in qualche momento fosse “nostro”, e forse in quel momento nostro lo è? E una volta raggiunto l’obiettivo, è così facile dismettere quegli abiti per chiudersi alle spalle la porta di ricordi, relazioni, promesse, sentimenti? Davvero si può essere dei sinceri intellettuali sporcandosi le mani solo per qualche mese? Per dirla con le parole dello stesso Carrére, in questo racconto «si respira il senso di colpa che si sente quando ci si avvicina alle vite degli altri, ma a condizione che non siano le nostre».
Sul piano cinematografico, comunque, Carrère si muove con prudenza, con uno stile su un classico, lontano dai modelli più affermati di cinema sulla povertà, dagli ansiogeni ma spesso molto inventivi ed efficaci Dardenne alla maturità narrativa di Loach che fa vivere i suoi protagonisti in città, comunità che diventano personaggi fondamentali dei suoi film. Anche qui, Caen e Ouistreham hanno certamente un loro risalto, con le notti e le nebbie portuali del Nord, un gelo che non si sa se è più esteriore, fisico, o interiore. E la fotografia naturale di Patrick Blossier contribuisce a rendere quel traghetto la metafora di un sogno impossibile, che alcune di loro vivranno come reale per poche ore, prima di tornare all’inferno quotidiano. L’autore, avendo a disposizione un cast di ottima levatura, con buon senso si affida ai loro volti, alla recitazione di un affiatato gruppo di donne che riproducono con convinzione se stesse. Binoche da parte sua, che all’inizio mal cela un certo impacciato distacco dal mondo “reale” dei poveri, finisce per farne parte con credibilità non solo attoriale, un po’ come Vincent Lindon nei recenti film di Stéphane Brizé sul mondo del lavoro precario, da La legge del marcato a In guerra. Carrère si permette qualche compiacimento, qualche espediente letterario? Forse, ma di certo si riscatta nel finale, secco, amaro, in cui l’imperativo sociale, detestato ma reale, “tornare ciascuna al suo posto”, diventa la difficile eredità esperienziale della protagonista. Che oltretutto se lo sente ironicamente ripetere proprio da Christéle, una che ha dovuto troppe volte constatare quanto questa verità sia difficilmente mutabile.
Fra due mondi di Emmanuel Carrère con Juliette Binoche, Hélène Lambert, Léa Carne, Emily Madeleine, Patricia Prieur, Evelyn Poesie, Didier Pupin