Carcano e ATIR riportano in scena il classico di Bertolazzi in un progetto di arte partecipata per raccontare la povertà di oggi: Osservarlo guardandosi intorno è un’esperienza da fare
È la vita, che voi dovreste raccontare, fa dire Valeria Bruni Tedeschi a Patrice Chereau nel suo ultimo, affascinante film Les Amandiers in sala da ieri. Cheréau, nume tutelare del teatro francese e allievo – per alcuni anni – di Strehler al Piccolo di Milano, potrebbe tranquillamente aver mutuato quelle parole da un testo di cui Strehler ha fatto un simbolo ma che nasceva, nel 1893, sulle tavole del Palcoscenico del Teatro Carcano e che ora vi torna. E da un autore, quel Carlo Bertolazzi che per primo ha portato sul palco la vita vera, la città e chi la abita e la rende viva. Esattamente per com’è.
La stessa cosa che provano a fare oggi, con un progetto mastodontico e ai limiti della sapiente megalomania di cui solo alcuni sono capaci, le nuove anime del Carcano, con in testa Serena Sinigaglia, regista e condottiera di un nuovo El nost Milan, in scena fino al 4 dicembre.
Portare in scena la vita, com’è, può essere dirompente oggi quasi quanto allora. Soprattutto se a farlo non sono gli attori, ma più di centocinquanta cittadini, in un progetto lungo un molti mesi e fatto di molti volti in cui – per restituirla – la vita va incontrata, sperimentata, sintetizzata. In un mastodontico lavoro che oltre e prima della neo direttrice artistica vede coinvolta una messe pressoché innumerabile di professionalità e un numero di anni – quelli sì, si possono contare e fanno venticinque – di esperienza sul territorio, portato nelle periferie e nei luoghi dove il teatro, spesso, proprio non è nemmeno un’opzione.
Fra gli anziani, i diversamente abili (mai nozione fu più vera che in questo caso) e i pazienti psichiatrici. È l’esperienza di ATIR che, nell’attesa degli sviluppi sul destino del Ringhiera ancora chiuso, ha visto passare la mano da Sinigaglia a Nadia Fulco (cui in veste di coordinatrice dei progetti sociali, per questo progetto a nome di tutti va l’ammirazione per la dose di follia di un progetto tanto articolato) Mattia Fabris e Arianna Scommegna, e continua a svolgere la potente funzione di catalizzatore e potenziamento sociale prima che culturale che il teatro dimostra di poter avere. E lo si vede soprattutto in un progetto del genere, che segue la già ambiziosa Odissea e tocca dei picchi numerici e di complessità finora ineguagliati.
Obiettivo, raccontare, oggi a Milano, la povera gente. in attesa di descrivere – il prossimo anno, i signori, e poi di provare la pazzia di mettere in scena il testo originale così com’è. Un progetto di ampio respiro di cui dicono qualcosa i numeri – a quelli già fatti vanno aggiunti i sei drammaturghi: Tindaro Granata e Simone Faloppa, Giulia Viana, Giulia Tollis, Francesco Maruccia, Domenico Ferrari, I nove mesi di lavoro, le tre accademie coinvolte nel reparto tecnico (Santa Giulia di Brescia, Accademia di Brera e NABA), i quattordici luoghi della povertà studiati e fatti propri dai protagonisti in scena (dall’Opera San Francesco ai Portici di Via Hoepli, dal Mercato di Piazzale Cuoco a Piazza Selinunte, dalla stazione Centrale alle docce di via Sammartini).
Dicono certo molto, ma non tutto. Molto dice anche aver avuto la possibilità di emergere dalla nebbia milanese – la scighera che si vede a fatica rispetto ai tempi del Bertolazzi e che pure del suo testo è protagonista, vicario parziale abbondante ricorso alle macchine del fumo. Emersi dalla breve prospettiva dell’aria spessa nel giorno prima del debutto ci si immerge in un Carcano – ancora, forse suo malgrado salotto buono della cultura – per finire metaforicamente travolti da una marea vociante di mille ragazzini vocianti, che con una voce sola seguono quella di un figlio simbolo della periferia di Milano, quel Mahmood che di nome fa Alessandro e che li guida a cercare appunto il suono del barrio, del quartiere, della propria casa e di uno stare in scena che taglia il buio.
Un fuoriscena tutt’altro che casuale, a contraltare del celeberrimo Ragazzo della via Gluck celentaniano che – possiamo testimoniarlo – i nati abbondantemente dopo il 2000 conoscono ancora bene. Questo almeno finchè la magia del teatro non ha luogo anche davanti ai loro occhi. Ed è così che cadono – e per questo vale la pena raccontarlo – tutti i luoghi comuni sul teatro e sulla difficoltà di avvicinare i giovani e i giovanissimi.
Si impara molto, ascoltandoli trattenere il fiato davanti al farsi del teatro. Ci si sorprende scoprendo dove ridono, sentendo gli applausi a scena aperta che interrompono la messa in scena spontaneamente e in massa quando si parla di diversità e inclusione, in barba a qualsiasi accusa di condizionamento. Racconta molto del senso di un progetto del genere osservarli meravigliarsi di fronte a una regista che trova il modo migliore per dare forma all’irripetibilità del momento condiviso, e rispetta i suoi “attori per una sera” chiedendo loro (con gentile fermezza) la precisione che si deve all’efficacia della scena. Non è un esperimento graziosamente ipocrita, questo.
È teatro, nel senso vero, pieno e potente del termine. E lo avvertono anche i più piccoli. Non vola una mosca, nemmeno quando il sipario si apre sul Bertolazzi e la sua esigenza di raccontare la vita in una lingua, il milanese forse neppure dei loro bisnonni, che loro certo non conoscono più. E non ci sono cali d’attenzione neanche quando l’empatia di una Caronte d’eccezione come Lella Costa li accompagna attraverso quello che stanno per vedere portandoli per mano fino a Lady Macbeth, e alle sue mani sporche di una macchia che non si laverà via. Come il vestito di scena che manca sempre, come quelle vite – colpite al centro, scolpite ai bordi – che sulla scena portano una macchia. Ma è davvero, la povertà, una macchia? E come si deve leggere?
La metafora è un crinale a suo modo scivoloso per quanto evocativo, ma sta lì appositamente a denunciare il vizio dello sguardo. È sporco, è smog, è polvere, la vita dignitosissima e sofferta – nessuna retorica di rassicurante distanza anche mentre si sorride – che stiamo osservando? È la farina del pane, del lavoro che manca, il segno della fatica? Cosa stiamo davvero vedendo? La risposta sta allo spettatore, mentre davanti ai suoi occhi sfilano i frammenti di una realtà che per molti è quotidiana ma che in poche città come a Milano esiste non vista accanto all’ostentazione, alla finanza (che cade, a sua volta, ma trova ogni giorno un modo più crudele di rialzarsi. In sei minuti (tanto è dato ad ogni gruppo) non ci può stare tutto, ma c’è quanto aiuta a orientarsi, a riconoscere e riconoscersi.
Non a caso, vengono meno le distinzioni etniche, di età, di biografia, tra chi è raccontato e chi è in scena. Perché dentro a quei volti siamo, possiamo essere, tutti, e l’obiettivo – rivendicava la regista in sede di conferenza stampa – non è documentare, ma rappresentare il sentire della città, quando racconta se stessa, mediato dal sentire di chi la incontra. Perché c’è una città che vorremmo – o non vorremmo – la città che immaginiamo e dentro cui riconosciamo noi stessi. E poi c’è la città che è. “La città che vivi”. Quella da cui e a cui, plasticamente, chi è in scena prima esce e poi torna, in un dialogo costante per definizione senza confine reale di un proscenio.
Nelle parole per descrivere la povertà, nei simboli e nei mezzi, molto si prova a raccontare, molto ci può stare e qualcosa, inevitabilmente manca. Ancora di più crediamo di conoscere o ci raffiguriamo, trasformando in archetipo un incontro personale, un pezzo di strada o un vestito macchiato. Dalla polvere, dalla povertà che c’è, dalle città e dalle persone che la fanno. Che si cominciano a guarire a partire dall’ascolto.