Al teatro Franco Parenti, per il Cinquantesimo torna in scena la vivida riscrittura di Franco Loi de La vita es sueno di Calderon de la Barca, con un cast di qualità e una resa senza tempo.
Si racconta che il primo gesto sul copione di Mariangela Melato fosse tradurlo, tutto, in milanese. Qualsiasi copione, compresa la Fedra di Racine. Era quello il solo modo per attingere alla verità profonda delle parole, alla loro capacità di incarnarsi in qualsiasi figura prendesse vita in scena. Viene in mente questo, alle prime parole di La vita, il sogno, in un Teatro Franco Parenti che disegna per l’occasione la sua scenografia e, sempre all’interno delle celebrazioni per i propri cinquant’anni, rinsalda anche con questo testo il legame viscerale con la propria milanesità.
Doveva pensarla così anche il poeta Franco Loi, il più milanese dei milanesi anche se nato altrove, quando a metà anni Novanta ha preso il capolavoro di Calderon de La Barca e l’ha traportato alla corte di Francesco e Galeazzo sforza, a una Milano popolare anche nelle stanze del potere e a una storia persa nei connotati della leggenda. E del sogno, perché del resto, in teatro, non potrebbe essere altrimenti, laddove reale e immaginato si sovrappongono a dare forma a un destino possibile. Qui è quello di Galeazzo, costretto dall’auspicio di un oracolo a essere creduto dal padre l’origine della sua rovina e di quella della città, e quindi rinchiuso nella torre fino a che il padre Francesco non decide, ormai adulto il primo e fiaccato il secondo, di provarne la degnità. A un giusto duca, sarà consegnato il ducato, a un uomo indegno del proprio rango il buio della torre, nell’illusione di aver soltanto immaginato di essere chi è. In favore, in questo caso, di Guglielmo, marchese del Monferrato, amato traditore della giovane Iolanda, venuta a Milano da Varese sotto sembianze a cercare vendetta del proprio onore e del proprio sentimento tradito, e costretta suo malgrado a ricongiungersi col proprio destino.
Facendo sala anche del foyer, così come il Castello Sforzesco e la strada della sua gente che spinge per scegliersi da sola la propria voce, torna in scena una farsa sul potere, colorata di cupo dalle spade ma destinata a volgere in commedia. Nel suo significato etimologico, vale a dire di rappresentazione in cui trovano spazio inserti popolari, ovvero in volgare, all’interno delle liturgie tradizionali. Franco Loi infatti le regala una lingua, dove l’Italiano, il milanese e il lombardo si interpolano e trovano spazio all’interno della corte. Come in ogni vicenda di quest’ambientazione che si rispetti, a dar da guida allo svolgersi della vicenda e insieme a farvi entrare il lombardo è il Pandino di Antonio Rosti, nella funzione del proverbiale giullare che guida lo spettatore dipanando le trame di corte, qui servo della nascosta Iolanda. Ma tutti, pur se in misure diverse, fanno propria una lingua che ha il passo del suo autore, l’eleganza della poesia e la tersità di chi non ne ha fatto mai un vezzo ma ne ha usato la musica – così come quella del dialetto – come veicolo di verità.
Così si compone la partitura – insieme a quella, originale e affascinante, delle percussioni – concretissime e creative a loro volta – di Simone Beneventi a fondo scena – di uno spettacolo fuori dal tempo cui il regista Daniele Abbado fa la saggia scelta di attribuire solo apparentemente, la nudità della lettura scenica: l’appoggio del testo pare spesso diventare, anche qui, un supporto (non di rado tenuto solo tra le mani, come un approdo di sicurezza) per tornare al testo e alla forza della parola. Un lavoro denso di sfumature, dove il potere mette in scena l’ottusità di chi teme di perderlo o di chi è guidato dalla bramosia di consumarlo, dove i legami di sangue si piegano alla ragion di stato eppure, facendolo, svelano un’umanità di padri e figli perduti e negati a se stessi tutta, assolutamente, contemporanea. Il potere è umano e fragile, eppure lo sa, e proprio da questa consapevolezza della fallibilità dell’uomo trae la statura morale per essere all’altezza del proprio ruolo, per mettere davanti al proprio il bene di una città, Milano, che tuttavia reclama il diritto di scegliere per sé, di prendere spada e parola, che della spada ha sovente la forza e il vigore. Solo riconoscendo le mancanze proprie e altrui il rozzo Galeazzo può trasformarsi nel condottiero che la città esige, discernendo con nettezza tra lealtà e tradimento.
Un “canto alla città” come anticamente si cantavano i poemi cavallereschi, che può esprimere tutte le sue sfumature solo su un cast di qualità: Giovanni Crippa è un Galeazzo convincente, volgare e spietato con la stessa forza con cui sa poi essere magnanimo, Ruggero Dondi è un Duca magnetico, capace di porgere in parole tutto il peso della propria schiacciante responsabilità, il Gaspare di Alberto Mencioppi, dolcissimo efermo, sostiene le due parti opposte che il compito del duca lo chiama a recitare facendosi l’incarnazione della lealtà, Mentre Marco Balbi è l’incarnazione melliflua del potere più crudele, che deforma la voce del popolo come strumento della propria bramosia. Marina Rocco, Luca Sandri e Giovanna Bozzolo, invece, tessono una trama parallela che alle vicende di corte si salda per aggiungere, all’umano, il colore intenso dei sentimenti, per una volta non svenevole abbandono ma rigore nel desiderio di somigliare a se stessi.
Le molte facce di Milano, che consegna ai posteri la favola di una giustizia possibile. Fragile, certo. Ma radicata come la sua lingua.