Sul palco della Scala l’Io, l’Es e il Super-Io di Salome si inseguono tra pozzi senza fondo e stanze segrete della memoria. Il tutto cosparso di terra, piume, e sangue che cola a fiotti. Riccardo Chailly ricostruisce con gesto geometrico la partitura
Di quell’assembramento di Dalile, Erodiadi e Marie Maddalene che a fine Ottocento trasformò i palchi di mezza Europa in mistici bordelli, la Salomè di Wilde, a cui Strauss tolse l’accento finale qualche anno dopo, è un po’ il punto di arrivo. Ce l’hanno ricordato l’altra sera Riccardo Chailly e Damiano Michieletto dal palco della Scala (lo spettacolo è disponibile su RaiPlay), dove è andata in scena una delle produzioni più tormentate di questi tempi già difficili: sospesa la scorsa stagione per l’arrivo del Covid, quando ancora si pensava che in un paio di settimane ce la saremmo cavata, poi riaffidata quest’anno a Zubin Mehta, è infine ritornata per indisposizione di quest’ultimo nelle mani di Chailly, sostituto di se stesso come in una commedia di Menandro, che l’ha diretta ripartendo dal tritacarne proto espressionista della sua Tosca.
Dimentichiamoci le notti d’Oriente, i balsami da Sherazade, e pure i sette veli, di cui non si vede nemmeno un lembo. La scena di Paolo Fantin rappresenta né più né meno che l’inconscio di Salome, con Io, Es e Super-Io che si inseguono tra pozzi senza fondo e stanze segrete della memoria. Da subito si capisce che sul bianco immacolato di questo spazio interiore, irrealmente illuminato da Alessandro Carletti, ci finirà di tutto: terra, un diluvio di piume e ovviamente sangue a getto continuo che trasformerà questa sorta di asettica sala operatoria in un mattatoio.
Da alcuni anni Michieletto è in una fase di simbolismo crescente: ha alzato la posta in gioco del suo teatro, aggiungendo un po’ di mistero al determinismo psicologico a cui ci aveva abituati. Da sempre infatti le sue riletture trovano nelle azioni dei personaggi una causa che si può, anzi si deve spiegare, a costo di andare contro la vulgata sul melodramma fatto di “effetti senza cause”. Ma alcuni dei titoli affrontati ultimamente hanno una fonte – prima il Faust, poi Shakespeare, adesso Wilde – che forse richiedeva un approccio diverso.
Come in tanti suoi spettacoli, anche nel caso di Salome Michieletto scava nell’antefatto, in questo caso nell’infanzia amletica della “Prinzessin”, piena di abusi subiti dallo zio-patrigno, pedofilo e pure fratricida. Basta leggere alcune battute di Wilde tagliate da Strauss per sapere che il padre di Salome, prima di essere ucciso, è rimasto dodici anni rinchiuso nella stessa cisterna di Jochanaan. Non serve quindi il dottor Freud per diagnosticare a Salome un complesso di Elettra, per giunta aggravato dalla voce del Santo che, fin dalla prima scena, diventa l’equivalente del fantasma per Amleto.
Complicato? Nemmeno troppo: il teatro tende sempre a replicare gli stessi schemi. Solo che questa premessa, raccontata in scena in modo intrigante con alberi genealogici, flashback di Salome bambina, il paggio trasformato in una governante silenziosa che tutto sa, non spiega davvero come mai Salome alla fine chieda al Tetrarca la testa di Jochanaan. Meglio affidarsi allora all’enigma dei simboli, delle irruzioni liberty di angeli luciferini che starebbero benissimo a villa Stuck, di una luna nera minacciosa che spunta attirando sventure coi suoi poteri gravitazionali, dei segni di un rituale che deve essere compiuto e non lascerà scampo. La testa di Jochanaan appare nel finale come un astro art nouveau, prima che l’intera scena collassi inghiottendo la protagonista ormai all’apice del suo delirio.
In questa raffica di idee, di soluzioni visive e drammaturgiche, tutto è affrontato con un controllo tale che, se volessimo trovare un difetto allo spettacolo, sarebbe proprio in un eccesso di lucidità. Tant’è che a conti fatti è proprio l’erotismo il grande assente di questa lettura. Non per dimenticanza, ma perché forse, per Michieletto, in Salome non c’è un principio di piacere che la guidi, non c’è la necessità di un passaggio verso un’altra età meno innocente: perché tutto viene ricondotto a un trauma, ingombrante e distruttivo, e lo scopo del dramma diventa farci i conti, a qualunque costo.
Questa visione così nitida di Salome, in un certo senso “a ritroso”, sembra anche la stessa di Riccardo Chailly, che ricostruisce con il suo gesto, quasi geometricamente, ogni pagina della partitura, tenendosi sempre un passo indietro rispetto all’attrazione fatale di certi passaggi, e concedendosi di più inaspettatamente in altri. Così non sorprende che più ancora della “danza dei sette veli” sia magnifico il quintetto degli ebrei, con i suoi toni grotteschi e nevrotici, unico segno della presenza di un mondo esterno in questa tragedia dell’interiorità. Elena Stikhina, bellissimi occhi verdi perfetti per il punto di viola del costume di Carla Teti, funziona paradossalmente più per quello che non fa che per quello che fa, per la sua compostezza straniante e un po’ brechtiana. Ottimo anche l’Erode di Gerhard Siegel. Completano il cast Linda Watson, Wolfgang Koch, Attilio Glaser e Lioba Braun.
Foto di Brescia/Amisano – Teatro alla Scala