Il bravo regista cileno Pablo Larrain (“Il club”, “Jackie”) costruisce un biopic originale sulla figura della principessa triste che non volle diventare regina. E Kristen Stewart asseconda il suo virtuosismo filmico con una prova d’attrice notevole, raccontando i tre giorni in cui Diana Spencer decise che quello accanto a Carlo, prigioniera della corte inglese, non era il posto che voleva nel mondo. Ma tutto questo ci è stato narrato tante volte, e il film fatica a scegliere cosa è stato davvero più importante
È di Kristen Stewart il nuovo volto di Lady Diana, protagonista di Spencer, l’ultimo film del cileno Pablo Larraín. Siamo nel 1991, alla vigilia di Natale, e Diana Spencer – la “principessa triste”, così la chiamavano – si è persa nella campagna inglese nel tentativo di arrivare da sola, alla guida della sua macchina sportiva e seminando la scorta, a Sandringham, residenza di campagna dei Windsor, proprio a due passi da quella degli Spencer, in cui è cresciuta. Quando finalmente arriva a destinazione, tutta la famiglia reale la attende, non esattamente a braccia aperte, e lei si sente fin da subito come Anna Bolena in procinto di porgere il collo al boia. I tre giorni che seguiranno saranno quelli fatali, in cui Diana arriverà alla decisione di porre fine, dopo undici anni, al matrimonio con Carlo, nato sotto il segno della favola e del sogno in rosa e ben presto trasformatosi in un incubo livido, fatto di tradimenti, bulimia e autolesionismo.
Tre giorni in cui Diana combatte una battaglia tanto strenua quanto vana contro le regole di un mondo in cui si sente sempre più estranea, di una famiglia che ha già smesso di essere la sua. E la vediamo arrabbiata, sperduta, infelice, ossessionata dal cibo e dal peso, da quegli abiti meravigliosi che ama ma che pretende di ricombinare a suo piacimento, esercitando un diritto al libero arbitrio che per la moglie dell’erede al trono non è in alcun modo contemplato. La bambina che voleva essere principessa ma non volle diventare regina è soprattutto una donna in perenne fuga, perseguitata dall’idea che sia in atto un grande complotto contro di lei. Un complotto di cui fanno parte tutti i membri della famiglia reale, tranne i figli, anche se il più grande, William, già compreso nel suo ruolo di futuro erede al trono, la guarda ogni tanto con inquieta preoccupazione.
“Ho cercato di evadere ma mi hanno riacciuffata”, dice Diana a un certo punto, nel corso di uno dei suoi tanti soliloqui. Sì, perché parla incessantemente la protagonista, mentre invano tenta di tenere a bada le soverchianti forze nemiche che la assediano da ogni parte: parla con i figli e la cameriera, con la regina e il marito Carlo, con il fantasma di Anna Bolena e anche con gli alberi e i fagiani. E purtroppo non riceve mai, o quasi, una risposta.
L’intuizione forse migliore del ritratto composto da Pablo Larraín è proprio questa: lady Diana non è semplicemente rinchiusa in una prigione dorata, è proprio sotto assedio, perennemente. Un assedio ben rappresentato da quel continuo bussare alla porta, dal costante tentativo di disciplinare e domare la principessa ribelle, ricondurla dentro i ranghi costringendola ad accettare le regole del gioco. Quel gioco che i nobili hanno inventato ma che il popolo stesso ama e difende, e non vorrebbe cambiare con nessun’altro. “È una favola tratta da una storia vera”, avverte una didascalia all’inizio del film. Una favola nera, tutt’altro che a lieto fine, come ben sappiamo. Ed ecco, forse il problema principale di Spencer è proprio questo: che sappiamo tutto di lady Diana Spencer, ci è già stato raccontato troppe volte.
Larraín è bravo come sempre a intrecciare tensioni e rivelare sentimenti muovendo sinuosamente la macchina da presa, e si rivela abile e intelligente nel suo perseguire un’idea di biopic che nulla ha a che fare con la banalità dell’agiografia e molto con il desiderio di usare la cinepresa come un bisturi, a partire dalla scelta di chiudere una vita intera in una manciata di istanti, pochi giorni, un momento preciso e irreversibile. Come aveva fatto con l’intervista una settimana dopo l’assassinio di JFK per Jackie, o la fuga di Neruda nel film dedicato al poeta cileno. Una scelta d’autore che consente di concentrare l’attenzione sull’eroina o sull’eroe, lasciando fuori fuoco tutto il resto. In un film come Spencer ciò significa, come ovvia conseguenza, avere Kristen Stewart in ogni inquadratura. Ma non è certo un problema: la giovane attrice diventata famosa inseguendo vampiri si rivela ampiamente all’altezza del compito.
Il problema forse sta davvero a monte: di Lady Diana si è parlato tanto (troppo), sia da viva che da morta. Sappiamo veramente troppo di questa donna infelice e fragile, totalmente incapace di accettare le regole di un gioco inventato ben prima della sua nascita (e anche di quella dell’ormai quasi centenaria regina Elisabetta, in questo come in altri film prototipo perfetto della suocera senza cuore). Insomma, forse noi non ne possiamo più di sentirci raccontare la sua storia, però Larraín ci mette una sorta di timidezza, un pizzico di annebbiamento, un’incapacità di scegliere – con la lucida precisione di cui ha saputo dare ampia prova in altri suoi film – quell’istante, e quello soltanto, capace di raccontare un personaggio e una storia nella loro interezza. Così si perde in lungaggini inutili e ripetizioni inessenziali, che dilatano i tempi e rischiano di esasperare lo spettatore. Peccato!
Spencer di Pablo Larraín, con Kristen Stewart, Timothy Spall, Jack Nielen, Freddie Spry, Jack Farthing