Vista a Monaco, diretta magistralmente da Kirill Petrenko con una regia non sempre all’altezza di Harry Kupfer, l’opera di Šostakovič narra di un’insoddisfatta Bovary che precipita in un vortice di cronaca nera da far impallidire Butterfly
Nuova produzione all’Opera di Monaco, di quelle importanti, con gli onori di casa di Kirill Petrenko e la regia prevedibilmente elegante, elegantemente prevedibile di Harry Kupfer. Il titolo è il più cupo e disperato di Šostakovič: Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, che il regime sovietico, lento ma inesorabile, convertì da trionfo in condanna a due anni dalla prima del 1934. La stroncatura sulla Pravda rischiava di mutare in terrore e miseria la vita del compositore: scritta, pare, da Stalin stesso col rimprovero pseudo musicologico «Caos anziché musica».
E «caos» stava a indicare una composizione elitaria, inutilmente complicata, lontana in ugual misura da massa e potere, incurante del realismo socialista gridato e imposto dai bassifondi di Gor’kij: quello dell’arte che deve educare i lavoratori, degli artisti «ingegneri» dell’animo umano.
Per conoscere meglio vita e destino di Šostakovič, le sue attese beckettiane sul pianerottolo per farsi arrestare, Einaudi ha pubblicato Il rumore del tempo di Julian Barnes. Sintetica rappresentazione dei compromessi di un «vigliacco», in sospeso per tutta la vita tra la gloria e le umiliazioni dei suoi colloqui con il potere. Buon libro abilmente scritto un poco al di qua del superficiale, ma quanto basta per funzionare.
Sull’onda di Butterfly, direi che questa Lady Macbeth della steppa potrebbe essere una sorella meno repressa e parecchio più aggressiva della geisha di Puccini. Dalla Scala all’Opera di Stato Bavarese, due vittime – una delle quali anche carnefice – comunicano, sempre al femminile. Dalla farfalla di cartapesta di Sant’Ambrogio a questa moglie borghese del distretto di Mcensk, insoddisfatta Bovary che precipita in un vortice di cronaca nera da far impallidire la Lady scespiriana. Ma chissà se anche Butterfly non ha pensato di gettare giù dalla collina la sua rivale Kate Pinkerton, mentre le negava una stretta di mano.
Oltre all’amante del suo uomo, l’elenco delle vittime di Katarina comprende marito e suocero, ma nel racconto originale ci sarebbe pure un nipotino. Almeno Šostakovič dispensa la sua Lady Macbeth dall’infanticidio: è più clemente di Nikolaj Leskov, il grande contemporaneo di Tolstoj e Dostoevskij da cui è tratto il libretto, paradigma stesso del narratore secondo Walter Benjamin.
Nonostante il commento di Stalin, di caos in questa partitura proprio non se ne vede. Di certo è un’opera complessa, con quelle contraddizioni che un regime non può proprio sopportare, oltre a un catalogo impressionante di situazioni psicologicamente devastanti. Ma non mancano i momenti di respiro, i passaggi più grotteschi, quasi di humour nero: il motivo claudicante su cui entra l’orribile suocero Boris Timofeevič, i gendarmi annoiati nel distretto di polizia. Poi la stanca dolcezza del finale corale in Siberia, il canto quasi verdiano dei deportati, la loro melodia affaticata e sensualmente circolare, destinata a spegnersi più che a riscuotersi.
Petrenko dirige in modo stupefacente, per come riesce a immergersi anche emotivamente in questo multiforme continuum sinfonico. E fa vivere ogni snodo, ogni passaggio della partitura con una chiarezza che sembra più della vista che dell’udito. Omicidi, scene di sesso, cori semi-orgiastici da Baccanti e infine l’atmosfera a zero Kelvin raggiunta dall’orchestra nel finale, con la pienezza dell’ultimo accordo, violento senza essere brutale. È musica disperatamente incapace di trascendere, costretta all’attualità di una vicenda sociale prima ancora che umana.
Lo spettacolo di Kupfer non è all’altezza di questa lettura musicale. Poche idee e qualcuna anche presa in prestito – per esempio da Martin Kusej. Monotona la prima parte, più movimentata la seconda. L’impressione è che non ci sia una vera impostazione teatrale. Per giunta la violenza è edulcorata e il sesso solo pudicamente – oltre che malamente – mimato.
All’uscita una simpatica bavarese mi dice arrossendo «Troppo sesso», e io non ho il coraggio di confessarle che mi è sembrato troppo poco. Le scene sono di Hans Schavernoch, una fabbrica abbandonata che ricorda il Fidelio di Deborah Warner. Sempre eccezionali i fondali video iperrealisti di Thomas Reimer: atto dopo atto la fabbrica si apre al cielo e al mare, denso di nubi il primo, gelido e siberiano il secondo.
Trionfo per Anja Kampe, in crescendo fino all’inquietante aria finale. Il soprano canta con evidente indulgenza nei confronti del suo personaggio – d’altronde la stessa che aveva il compositore -, accarezzando e liricizzando il più possibile i suoi cantabili, gli unici che Šostakovič non tronca per modellare con melodie caustiche questa tragedia satirica. Spicca il Sergej di Misha Didyk, mentre nonostante l’autorevolezza scenica, Anatoli Kotscherga fa fatica a sostenere la parte di Boris Timofeevič.