Le aspirazioni di una tuba. Theon Cross e la African diaspora music

In Musica

Riparte JazzMi con una rassegna ricchissima di eventi e musicisti di primo piano italiani e non. Fabrizio Bosso, Paolo Fresu, Paolo Angeli, Joel Ross, Moses Boyd, Theo Croker per citarne alcuni. Tra tutti abbiamo scelto di incontrare il giovane fuoriclasse londinese della tuba per farci raccontare perché ha scelto uno strumento così particolare e cosa anima oggi la scena del jazz anglosassone

Quasi come per le strade di New Orleans, insaziabili di jazz, si torna a uscire di casa, a partecipare a ciò che avviene “fuori”. Un fuori da cui siamo dovuti stare lontani nell’anno di pandemia che ci ha preceduto. Torniamo allo scoperto, a esporci, come avrebbe cantato Gaber, nella strada e nella piazza. Ritroviamo gli spazi comuni vitali, essenziali alla cultura. Ora che possono essere nuovamente occupati nella loro interezza, al cento per cento. Anche, e soprattutto, da JazzMi, dal 21 al 31 ottobre diffusa in tutta Milano per la sua sesta edizione.

Torniamo fuori, a vedere cosa succede, e chi si può incontrare. Dopo un periodo in cui molti hanno avuto finalmente tempo per stare anche un po’ dentro se stessi. Come è successo a Theon Cross, virtuoso londinese della tuba, che per JazzMi suonerà sabato 23, al Teatro della Triennale. Cresciuto come persona e come artista alla scuola dei Tomorrow’s Warriors, a Londra, è oggi tra i più importanti esponenti del movimento nato tra i banchi di Gary Crosby e Janine Irons, fondatori dei T’s Warriors e ispiratori di una nuova scena jazz che dalla Southbank londinese sta arrivando con le sue voci e i suoi suoni in tutto il mondo. 

Da Theon Cross, per rientrare nel clima del live, ci siamo fatti raccontare di sé e del panorama jazzistico vitale che oggi riconquista i suoi spazi, le sue radici e le sue lotte. 

A breve sarà pubblicato un tuo nuovo album: partiamo da qui e da cosa hai deciso di portare a JazzMi.
Il mio nuovo album, che uscirà il 29 ottobre, si intitola Intra-I che letteralmente significa “dentro me stesso”. Il significato dell’album, o meglio, il mio modo di concepirlo è un viaggio che faccio dentro me stesso, sono tutte le lezioni che imparerò lungo il cammino. È tutto ciò che scopro di me ma anche quello che apprendo dai miei antenati, da chi è venuto prima di noi e che in qualche modo è dentro di noi, che ci rende chi siamo oggi.  A JazzMi porterò la mia band per suonare alcuni nuovi brani dell’album ma anche un po’ di vecchia musica!

Nel disco c’è una dimensione riflessiva che sembra declinare il tempo che hai trascorso con te stesso durante l’isolamento della pandemia.
La pandemia ci ha davvero posto davanti a un momento di riflessione. Ci ha “distratti” dal nostro lavoro e ci ha messi nella posizione di non capire in che modo le nostre vite sarebbero tornate a essere “normali”. In quel momento ciò di cui avevamo bisogno era di focalizzarci sulla nostra salute mentale personale, sulle nostre ambizioni, sui nostri progetti e sulla nostra serenità. Ed è quello che è successo a me: ho avuto il tempo di pensare a quello che volevo esprimere, in termini concettuali, con la nuova musica che stavo componendo. Inoltre la pandemia mi ha dato effettivamente il tempo materiale per fare un disco. Così ne è uscito concettualmente un album che riguarda il mio io, ma che anche nella pratica è costruito intorno al mio strumento, la tuba, che spesso si trova a suonare tutte le parti. Questo mi ha portato a gestire più consapevolmente la produzione di ciò che creo, per la prima volta ho potuto davvero produrre il mio album. 

Dopo questo periodo, c’è anche bisogno di tornare a esplorare la dimensione sociale dei rapporti e di mettere se stessi in relazione con l’altro. Questo principio è alla base del movimento dei Tomorrow’s Warriors in cui ti sei formato. Come hai vissuto l’esperienza di questa scuola? È una parte motrice delle tue composizioni?  
La scuola Tomorrow’s Warriors è stata un terreno di partenza molto fertile per me, per imparare a suonare. E in assoluto ha avuto un significato importante per il sistema di istruzione britannico, perché è riuscita a occuparsi di chiunque volesse studiare, essendo gratuita e dando un’opportunità a chi non si sarebbe potuto permettere le alte rette di altre scuole, soprattutto in una città come Londra. Tutti si possono rivolgere all’organizzazione dei Tomorrow’s Warriors e prendere lezioni gratuite, e credo che per questo abbia avuto una enorme importanza in campo musicale, nel salvaguardare uno scenario che testimoniava e continua a testimoniare la scena jazz inglese. Sono molto orgoglioso di farne parte. E, sì, è stato parte del metodo che mi ha portato a comporre questo album. E anche parte del messaggio che vuole trasmettere. Il testo di un brano infatti cita «if is “each one teach one” get involved»: se ciascuno insegna al prossimo tutti dobbiamo essere coinvolti (a partire proprio dal detto afroamericano “each one teach one”, a indicare il potere della trasmissione di sapere, ndr). Per questo, visto che sto crescendo come artista e ricevo i miei primi riconoscimenti, anche io devo iniziare a essere un esempio per gli altri. E vorrei aiutare gli altri come sono stato aiutato io. 

Anche le donne sono parte fondamentale di questo movimento: che ruolo hanno in questo processo?
Credo che, nel mio ambiente in particolare, ci sia finalmente un grande riconoscimento del lavoro delle donne, ci sono molte donne nello scenario jazz londinese. Per esempio ci sono le Kokoroko guidate da Sheila Maurice-Grey. Oggi si vedono sempre più gruppi tutti al femminile e credo che si stia facendo un buon lavoro per incoraggiare le donne a guadagnarsi il posto che meritano, ed è qualcosa che apprezzo molto. 

Come descriveresti la scena jazz londinese attuale? Oggi moltissimi musicisti di rilievo provengono da lì, dalla stessa scuola da cui provieni anche tu.
Sì, quello che mi piace e che è significativo della scena londinese in questo momento è che c’è un’intera generazione di musicisti che riescono a essere se stessi e che hanno un grande rispetto per il jazz come genere musicale e anche di quello che arriva dagli States. Perché ne abbiamo un rispetto e un amore profondi, ma credo che ci troviamo tutti a un punto in cui stiamo imparando ad accettare chi siamo, come londinesi e come musicisti che hanno alle spalle la diaspora africana. Credo sia così che abbiamo ereditato le influenze dell’afrobeat, del reggae, della cultura del sound system e di tutta la musica che è passata da Londra. Per questo probabilmente c’è una scena così creativa in questa città, e così ricca.

E come descriveresti la tua musica, il tuo genere, che deriva dal jazz ma va anche oltre?
La descriverei come musica della diaspora africana. Dentro c’è il jazz, c’è la musica afro, c’è la musica sudamericana, ci sono molte ispirazioni diverse. Ma credo che la definizione per me dovrebbe essere proprio “african diaspora music”.

Come per tutta la scuola dei Tomorrow’s Warriors, nel tuo approccio alla musica un ruolo essenziale ce l’ha l’improvvisazione?
Certo, l’improvvisazione è una parte fondamentale del jazz e della musica del periodo della diaspora africana. In tutte le band londinesi si trovano elementi di improvvisazione che dal nulla sanno creare momenti importantissimi per la musica. E credo che questo valga in particolare per i musicisti che provengono dalla scuola dei Tomorrow’s Warriors. 

Il tuo strumento, la tuba, è originariamente associato alle big band swing, alle orchestre jazz ma anche a quelle classiche. Tu come hai reinterpretato questo strumento?
Sono sicuramente stato aiutato dal fatto che quando stavo imparando a suonare la tuba ho attraversato molti generi musicali. Ho suonato molto jazz tradizionale, un sacco di vecchia musica di New Orleans. Ho suonato in una band che si chiama Brass Mask con cui suonavamo avantgarde e free jazz. Poi ho studiato anche musica classica e dato un sacco di esami classici quando ero a scuola. Quindi credo che tutti i vari volti della musica che ho imparato nel tempo mi abbiano portato a conoscere la tuba in diversi ambiti e a saperla trapiantare in situazioni in cui normalmente non si trova. E credo che stia molto cambiando il modo di vederla, la tuba, perché fortunatamente la si suona in tanti contesti differenti. Direi anche grazie all’avvicinamento alla cultura del sound system, a generi musicali in cui si trova la cultura del basso, insieme a una certa sensibilità per il ritmo, come nella dubstep, in cui il suono del basso è molto simile al suono naturale della tuba. Questo è stato in grado di riunire le persone, soprattutto i giovani, in modo diverso: finalmente sentono uno strumento che suona familiare, perché lo sentono nella musica più comune. 

Si potrebbe dire che tu abbia portato la tuba, uno strumento “basso”, a condurre?
Sì, assolutamente, possiamo dirlo. Perché lungo il mio sviluppo ho imparato ad accompagnare. Ma poi ho imparato anche a improvvisare, e così nei miei lavori è la tuba al centro e sono io che guido il gruppo. Credo che questa sia una cosa che le persone non si aspettano di vedere da una tuba, ma nella maggior parte delle mie band io sono nella parte anteriore del palco e credo che questo aiuti a cambiare la percezione che il pubblico ha dello strumento tuba, non come “basso” ma come ruolo principale nella musica contemporanea. 

Tra l’altro, c’è una riscoperta delle brass band nello scenario musicale di oggi. Stanno tornando a prendere piede sia in ambito jazz che in ambito popolare.
Assolutamente. Credo che molte delle New Orleans brass band stiano andando davvero bene ed è stato un genere che ha avuto grande influenza su di me. È un genere che ha una storia profonda, che ha radici nei primi anni del ventesimo secolo. Ed è un genere che come il movimento jazz londinese ha un forte legame con la città di New Orleans, per via delle bande di ottoni della guerra civile: ha trasformato la cultura delle bande militari in un genere che appartiene, come molta musica statunitense, alla black music, alla musica nera del sud. Questo tipo di ensemble di ottoni stanno adottando i suoni di oggi e stanno diventando sempre più importanti e rilevanti nella scena musicale internazionale. 

Parafrasando il tuo EP quali sono le tue aspirazioni? E quali sono invece le radici a cui si ispira la tua musica?
Aspirations è stato il mio primo EP ed è stato un inizio in cui io ho messo quello che volevo vedere nel futuro per me stesso, uscendo allo scoperto in questo universo… e concettualmente anche pensare a quello che è il mio inizio come artista, dove avrei voluto vedere me stesso, non solo come persona ma come musicista. 
Nella mia formazione ci sono un bel po’ di reggae, molta musica africana, molto jazz, e anche molto rap e hip hop. Credo che nel reggae siano stati fondamentali per me figure come Bob Marley, Dennis Brown, Barrington Levy: sono persone che mi hanno ispirato, e con alcuni di loro ho avuto il piacere di parlare e scambiare idee. Mentre nel jazz per me sono stati importanti un sacco di grandi come Miles Davis o John Coltrane, e per quello che riguarda il mio strumento, la tuba, i miei fari sono stati Bob Stewart e Howard Johnson. Devo molto a loro, come ai miei insegnanti e ai compagni con cui sono cresciuto tra i Tomorrow’s Warriors. 

Credi che, oggi soprattutto, ci sia bisogno di una presa di posizione politica, sociale nella musica?
Sì, credo che sia un nostro compito parlare dei tempi, parlare del contesto sociale in cui viviamo. E credo che ci sia anche questa dimensione nella mia musica. 

E in questo festival quale sarebbe il musicista italiano che andresti a sentire?
Non ho dubbi, un mito della tromba, che stimo molto: Fabrizio Bosso. 

C’è Londra in questa edizione di JazzMi (oltre a Theon Cross, anche il batterista Moses Boyd) ma c’è anche tanta Italia: a partire proprio dal trombettista Fabrizio Bosso, con il suo 4tet, fino a Paolo Fresu, dall’Orchestra Nazionale Jazz Giovani talenti all’instancabile Paolo Angeli, che insieme ad altri artisti sardi (Antonello Salis e Gavino Murgia) suonerà in Triennale con il batterista americano Hamid Drake. Da Chicago (e New York), poi, arriva anche il vibrafonista Joel Ross. Gli appuntamenti non mancano, anche nelle sedi “distaccate” di JazzMi: numerosi infatti i locali milanesi che organizzano e mettono al servizio del festival la loro programmazione jazz di queste giornate. 

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