Quando si scrive? Come? Con la musica o senza? E dove trovare l’ispirazione? E quando l’editore ti rifiuta? I metodi, i rituali, le manie dei grandi narratori come da sottotitolo di ‘Scrivere è l’infinito’, godibile rassegna di oltre cento testimonianze di autrici e autori raccolte da Mariano Sabatini
Non è detto che scrivere porti bene. A uno dei grandi vecchi della nostra letteratura, Ferdinando Camon, autore di romanzi magnifici come Un altare per la madre, La vita eterna e Occidente, ha procurato anche guai e dispiaceri. «I miei famigliari han letto i miei libri e non li hanno amati. Mia madre se n’è vergognata. Mio padre mi ha diseredato: è venuto qui (a Padova, ndr) con due testimoni e un notaio da Bologna, e ha fatto scrivere il diseredamento. Siccome non si può diseredare un figlio, lui ha fatto una donazione anticipata ad excludendum: l’escluso ero io. Ho sempre stimato mio padre per questo: aveva dei valori, la scrittura non ne faceva parte».
Lui si è risarcito del diseredamento continuando a scrivere. «La vita eterna fu un documento a carico contro un ufficiale tedesco, che morì subito d’infarto. Occidente fu usato dall’Avvocatura dello Stato nell’arringa d’accusa per la strage di Bologna: avevano scoperto che la cellula neo-nazista s’era copiata a mano undici pagine di quel libro, trovandovi esposte le ragioni per cui il terrorismo nero doveva fare una strage. Il “movente”. Le pagine furono poi usate nella sentenza di condanna. Quando torno in campagna, passo davanti alla lapide di un mio parente impiccato dai tedeschi, e dico: “Ho fatto quel che ho potuto”. Quando vado a Bologna, uscendo dalla stazione mi volto verso la lapide ai caduti e dico: “Ho fatto quel che ho potuto”».
Più di cento testimonianze di scrittori affollano le pagine del vivace Scrivere è l’infinito (Vallecchi, pagg. 208, 14 euro), sottotitolo “Metodi, rituali, manie dei grandi narratori”. Lo ha scritto, assemblando interviste e conversazioni con meticoloso brio, il romano Mariano Sabatini, giornalista e autore di saggi e romanzi (sua la fortunata serie con l’investigatore Leo Malinverno). Dentro, interrogativi e risposte sui massimi e sui minimi sistemi. Come si reagisce quando non ne vogliono sapere di pubblicarti? La parola ad Andrea Camilleri: «Ho avuto dieci anni di rifiuti dalle case editrici, ma non facevo drammi. Pensavo, in virtù della mia concretezza, che quella non era la mia strada. Quando Garzanti mi ha pubblicato Un filo di fumo, le tremila o cinquemila copie mi andavano bene. (…) E quando Elvira Sellerio mi comunicò che Il birraio di Preston era arrivato a diecimila copie, esultai».
Dove si scrive? A casa, nello studio più o meno sgombro di carte, più o meno ordinato, ma anche in cucina, che è più familiare e incute meno soggezione. Scrive in cucina, per dirne uno, il mio prediletto Edgardo Franzosini che in questo libro non compare. Oppure dove capita, anche al bar o in treno. «In quel caso, poiché non si tratta di un ambiente silenzioso, metto le cuffie e uso un’app che genera rumore bianco di vario tipo: può trattarsi del rumore della pioggia, o delle onde del mare. Mi piace in particolare la sirena a nebbia dei porti…» confida Licia Troisi, campionessa del fantasy nostrano. C’è chi usa un sottofondo musicale: classico per Tullio Avoledo (Bach, Arvo Part, Ivan Moody), Radio 3 o Leonard Cohen per Sandra Petrignani, ma «per Care presenze molti tanghi argentini, molto Chopin, Sibelius, Capossela, Besame mucho».
E quando si scrive, per quanto si scrive? Non ci sono regole e il ventaglio delle scelte, tra meticolosi (Dacia Maraini scrive tutti i giorni tranne la domenica, a orari fissi) e rapsodici, è il più vario che possiate immaginare. «Il mio personale ritmo circadiano è netto: sono lucida ed energica nelle prime ore del giorno, mentre dopo qualcosa si disperde, comincia a ramificarsi e a frammentarsi. Nelle prime ore invece c’è un’energia compatta, approfitto di quella e di un senso di vitalità maggiore che provo al mattino, per scrivere. Qualche volta mi è successo di lavorare di notte, ma lì trovo sia facile che prenda il sopravvento una certa enfasi pericolosamente tesa verso lo sproloquio» confessa Lisa Ginzburg. Mattiniero anche lui, ma a carburazione più lenta, Gabriel Garcia Marquez: «Io comincio a scrivere alle otto e mezza, ma a mezzogiorno, all’una sono all’apice del climax. Questo momento non si può comparare con nient’altro al mondo. Incomparabile. E assolutamente indescrivibile… Mi sa che così deve essere la droga. Uno rimarrebbe così tutta la vita, ma è solo un istante. Poi finisci, e leggi, già ti piace meno. Ma non conta niente. Quel che conta è il gusto di creare. Quello rimane per sempre. In questo senso io credo che scrivere finisca per essere un vizio…».
C’è chi fa soste frequenti, chi abbandona e riprende anche giorni o mesi dopo, più rari quelli che si costringono a non mollare. «Mi incollo alla sedia come una conchiglia allo scoglio» dice Melania G. Mazzucco. «L’immobilità mi libera la mente, mi consente una specie di beatitudine zen. Un giorno, però, mi metterò a contare quante sigarette si è aspirato Un giorno perfetto. Grosso modo, per quattrocento pagine, direi uno scaffale del duty-free. È una considerazione allarmante».
Come si parte? Con appunti e schemi, oppure improvvisando? Più facile, forse, per i giallisti. «Una volta determinata la trama, e raccolti gli elementi che mi servono con approfondite ricerche, prendo un foglio A3 e lo metto in orizzontale. Poi individuo le narrazioni, storia principale, seconda storia, personaggi che hanno bisogno di una narrazione specifica, e sotto questi titoli indico i singoli argomenti che diventeranno capitoli. A quel punto, inizio a scrivere cancellando di volta in volta i capitoli» racconta il meticoloso Maurizio De Giovanni dei Bastardi di Pizzofalcone. Paolo Di Paolo si affida invece a un quaderno che «per mesi si riempie di note, appunti, perfino disegni» e che, alla fine, gli dà la sensazione di essere pronto a incominciare.
Si scrive qualche volta a mano, ormai non più a macchina, quasi sempre al pc. «Tra me e il mio computer c’è un unico flusso di pensieri che scorre. Vado velocissimo, non guardo la tastiera, le parole finiscono direttamente dal cervello allo schermo. La tecnologia aumenta l’intimità tra la forma, il significato e il mezzo» è la convinzione di Mauro Covacich.
Ma da dove vengono gli spunti? Anche dai rumori che arrivano dalla finestra spalancata sulla strada e sul mondo, secondo Garcia Marquez. Anche dai sogni, secondo Ferdinando Camon. Dalle storie che ti raccontano, secondo Andrea Vitali: «Mi dicono, ti racconto una cosa ma guai se la scrivi: vuol dire esattamente il contrario. Se non la pubblico a breve perdo un delatore». Qualche volta, racconta Di Paolo, anche d qualche idea affiorata nel dormiveglia: «In quel caso verrebbe quasi da accendere la luce e appuntare su un foglio. Ma Pontiggia sosteneva che le idee davvero geniali dovremmo ricordarle al risveglio. L’ispirazione non esiste, è un cascame romantico. Esistono le intuizioni, lampi che somigliano a visioni. Ma non si scrive con l’ispirazione, si scrive con la costanza e l’ostinazione. “L’ostinazione” ricordava Philip Roth “ha salvato la mia vita, non il talento”.
Si potrebbe proseguire, ma bisognerebbe citare quasi per intero le mille chicche del libro di Sabatini e non sarebbe giusto. Basterà annunciare agli ingolositi che in Scrivere è l’infinito si parla anche di stile e idiosincrasie, di personaggi, di come (e se, e quanto) tagliare e correggere, di come ambientare una storia, di come trovare l’incipit e il titolo giusto, di come correggere le bozze, offrendo infine stratagemmi per farsi pubblicare. Insomma, non vi annoierete e scoprirete, come è accaduto a me, più di uno scrittore. Se poi volete scrivere facendo di testa vostra perché i consigli non servono, vi conforta Mauro Covacich: «Un libro ispirato tutto sghembo, pieno di errori eccetera, sarà sempre un libro ispirato. Un libro disciplinato privo di ispirazione… di urgenza, chiamiamola urgenza, sarà solo un compitino ben fatto».
In apertura foto di Patrick Fore/ unsplash