Recensione alla raccolta poetica “Le cose possibili” (Interno Poesia) di Martina Germani Riccardi
ora che amare non ti viene, mentre a me
mi porta via,
aspetto
che mi lascino passare, che finiscano
di esplodermi le cose qui dentro
senza nessuna fretta
di raccogliere i pezzi
poi
La «prima, vera, volta» di Martina Germani Riccardi è una densissima realtà geografica dai confini ben precisi, che «prima di tutto» vengono a galla imprevedibili e senza riparo. Come è la bellezza della vita. Violenta nella sua distanza e vicinanza alla verità. Dal basso verso l’alto, dall’apnea di parole alla libertà di dire no al sempre-sì, le righe assorbono una radicale assunzione dell’impartecipazione alle cose, non solo al “nero” di queste. «Per / donarmi»: tra le impronte sulle quali riprendere il corso e l’accettazione di un sentimento a una sola direzione, l’arte delicata del togliere trattiene un doppio movimento semantico che non può temere alcuna figura di alterità né il rischio di un amore vero. Che importa se la fantasia ‒ «grande» ‒ si sedimenta nel corpo? Nella cronaca reale dei fatti ‒ perché le immagini sono nitide e lontane dalla retorica ‒ la nuova direzione è segnata dalla possibilità, che è sempre l’altra faccia della relazione. Un po’ come la sostanza stessa del fare poetico. Così, una dichiarazione iniziale si incastra tra gli spazi, quelli che il nuovo rapporto con la vita tenta di creare: «Non m’importa più / di quello che poteva essere. / solo mi sorprende / quanto oggi sia viva». Il massimo dell’intensità ha un’eco pulita e forte ‒ «è la mia voce / che grida», «non prima di aver urlato / tutto quello che avevo da dire» ‒ , che si scaglia contro la paura di perdere le parole e, soprattutto, di dimenticare tra le volontà degli altri il contatto con la propria storia. Tutto parte da lì, da un Io che si compiace della propria ombra ‒ non di un abisso qualunque ‒ , dove non ci si scopre più orfani, ma ci si aggrappa a un «un filo del discorso / uno che sia uno», e non troppi, come quelli reduci da meditate rielaborazioni nell’unico campo in cui è vietato sentenziare: l’amore. È più difficile interpretare le interpretazioni che le cose, diceva Montaigne. Ma per ascoltare le cose occorre fare pulizia e registrare anche la banalità di ogni gesto e di ogni piccola libertà espressiva. C’è un biglietto, infatti, che in questa autobiografia relazionale nuota libero e recita un ritornello quasi performativo: «io ti voglio tra le cose possibili». Formularlo equivale a compiere l’azione, a esaudire un bisogno conquistato con la fatica ‒ non è sprecata, «educa il fiato» ‒ , che si rispecchia continuamente nel sé, in quell’acqua intima dove solo l’Io lirico decide di spostarsi, anche se «è più naturale respirare sotto che sopra»:
certe cose non si dicono, si nuotano:
il risultato è che dentro l’acqua ti parlo.
le parole hanno un ritmo loro
interrotto solo un secondo
quando giro la testa a far entrare aria,
per poi tornare da te
per rispondere
alle tue domande
uso ogni muscolo
lascio uno spazio minuscolo
al pensiero del tempo che mi passa sopra, agli altri
lascio la scia di me
Attraversare il mare ‒ in due ‒ , ma «stare esattamente dove si è»: in questo andirivieni tra equilibrio e subbuglio, « andata / ritorno / a passeggiate qui dentro», tutto vorrebbe trovare una reale direzione. Come questo amore-oggetto che non dialoga propriamente con le parole, ma le usa e, a volte, non vuole raccogliere i pezzi dei suoni sul pavimento, che rimangono lì, «di schiena», quasi come degli insetti impotenti. Eppure è sigillato nei fogli, è visibilmente ordinato in un «ti amo» che supera la forma della pagina e ferisce il potere del segno ‒ «scritto […] / a penna, a parole, a cose / a passi» ‒ , per poi perdersi da qualche parte. «Uno, uno […] / due, due / neanche metto la testa fuori»: sono dieci i tentativi per dirsi ‒ per dire e basta ‒ una verità che scambia il proprio canto con quello di un pesce, e sono esattamente «cento» le volte che si può perdere qualcosa di raro, «senza farlo apposta». Quasi sempre, dopo la cognizione del silenzio, si stende tra i versi un razionalismo costruttivo, che mescola ogni cosa, dagli avvertimenti del Tu ‒ «innanzitutto ci sono i limiti, hai detto» ‒ ai tentativi di giustificazione dell’Io ‒ ho ripetuto qui dentro innanzitutto ci sono i limiti. / ma è una cosa a cui non penso mai per prima» ‒ e alla voglia di geometrizzare tutto ‒ «ragiono in termini di macelleria» ‒ , di spiegare il percorso di un’intimità che, di fatto, è un ricordo di mani e di costole (sono «dieci», contate). Il corpo, dunque, è al centro di questa «storia di mare», anzi, è il centro della memoria che silenzia le parole e scioglie la «lava» della ragione, in un caos che risponde ugualmente all’esigenza di ordine. O forse no. Sulla nave, in effetti, c’è una carne sola che resta con il sale addosso, «a labbra spaccate». Si dice che parlare ‒ o tacere ‒ in nome di qualcosa che manca significa porre un’esigenza.
io non parlo però
torno a rifletterti:
torno a desiderare di
sanguinare con te
ma tu non torni.
allora scendo
le scale delle tue costole
tocco le voglie,
le bocche
si spalancano
per non richiudersi più.
Un pesce non può amare l’aria, ma è ora di abbandonare la scia del sentimento che le canzoni «si portano dietro come le lumache» per respirare lontano da quel luogo paradigmatico quale è il «sotto», ormai una prigione di cognizione e dipendenza. Meglio cambiare rotta e non sapere troppe cose sulle strade, meglio non parlare più, anche se del silenzio dei suoni e dei segni ci si può fidare, perché è sempre un sotterraneo soggetto tra il sé e la sua resistenza. Soprattutto, perché siamo fatti anche delle parole che non diciamo. C’è un tempo, al termine di tutti questi chilometri, che rallenta i giudizi ed esaspera le fitte emotive, nelle quali la fiducia nelle cose si tramuta in una esplosione psicosomatica e allo stesso tempo inconsapevolmente fonica, pronunciata da una coscienza troppo coinvolta: «drop bombs on me». Dalle scalinate di quelle costole sfreccia in alto una stella, e un dito la punta opponendosi alla lezione falsa della possibilità, che viene riproposta, dopo gli ultimi respiri tra le mancanze, in una parentesi solida e inaspettata: «(sapere tutto sulle strade, e non percorrerle non, / serve a niente)». La metamorfosi è già in atto. La paura del disordine lascia il posto a un istante immortale di contemplazione delle parole stesse, che diventano persino inutili negli enunciati assoluti. I nomi, in effetti, non servono a nulla, «alla fine ci si riconosce lo stesso». Alcuni ritorni, però, rimonteranno ancora alla prossimità topologica dell’acqua. Ora che gli occhi sono «letti di un fiume» (Seasons) non si «navigano» più le parole, ma «uno spreco di sentimenti» tra la goccia e il vortice, i due stadi estremi dei «liquidi» che maturano in una nostalgia del futuro, per credere in qualcosa di nuovo, per amarsi nella più alta forma di relazione con le cose.