Il primo film del paraguayano Marcelo Martinessi, che ha regalato alla protagonista Ana Brun l’Orso alla miglior attrice, è una vicenda intimista illuminata dalla ragione e dal talento di cinema. In una casa polverosa e impoverita di Asuncion due anziane signore, da sempre amanti, si scambiano sguardi, si lasciano (una finisce in prigione) e si ritrovano, fra complicità, sopravvivenza e sogni
Se non fosse che Chiquita e Chela, protagoniste di Le ereditiere, sono anziane amiche in affettuosa relazione lesbica, abitanti in una polverosa casa di Asuncion, capitale del Paraguay, e dormienti nello stesso letto senza lavorare di cucito, potrebbero sembrare le sorelle Materassi. Due vecchie signore-ine che vivono la decadenza economica della famiglia ora costretta a vendere i mobili (proprio come nei drammoni primo Novecento, vedi Come le foglie), finché una delle due viene messa in prigione per reati amministrativi e per debiti e l’altra si arrangia, incoscientemente senza patente, a fare l’autista taxi privèe per signore che vanno a giocare a bridge.
Ma i fuochi non sono spenti, c’è un ultimo tentativo sentimentale con una giovane, poi la vita riprende ed è un finale di partita triste anche se l’amica è tornata, dopo l’esperienza della galera, nella casa ormai disadorna e quasi vuota anche di affetti.
Il primo film di Marcelo Martinessi, che ha regalato ad Ana Brun il premio meritato come miglior attrice della Berlinale 2018, (ma sia lei che Margatrita Irun sono capaci di portentose finezze espressive) è una vicenda intimista al quadrato, fatta di occhiate e sguardi e silenzi, tutto materiale fuori uso nel cinema di oggi.
Eppure tra la polvere di quella casa un tempo lussuosa, con la cameriera che resiste ai bilanci, circola anche una crisi di valori e di morale: evidentemente le due compagne, che tentano ma neanche troppo di camuffare la loro relazione fatta anche di complicità, amicizia, sintonia politica, hanno vissuto nell’ombra consenziente della dittatura di Stroessner, finita nel 1989.
Ma è un sotto testo, il film vale per il ritratto meraviglioso di queste due donne perdenti ma a loro modo anche no, testimoni e memoria di un paese che al cinema non è frequente vedere. E senza che mai passi l’ombra della retorica, del melò o l’invito a tirar fuori i fazzoletti: tutto è chiuso nella scatola magica della ragione, che in questo caso comprende anche le faccende di cuore.
Le ereditiere, di Marcelo Martinessi, con Patricia Abente, Margarita Irun, Ana Ivanova Villagra, Ana Brun.