A volte uccidevano. Erano ragazze d’altri tempi

In Letteratura

“Le ragazze” di Emma Cline e “La scuola cattolica di Albinati” sembrano raccontarci entrambi il fascino di una gioventù bella, ma inesorabilmente intaccata dal seme del male e da certe derive ideologiche; una gioventù di carnefici che sono rimasti ad alimentare la curiosità delle persone, esercitando sulle menti una seduzione almeno pari alla repulsione, ma di sicuro superiore all’attenzione riservata nel tempo alle persone barbaramente assassinate.

Dopo Edoardo Albinati che con l’acronimo DdC “liquida” in più di mille pagine il delitto del Circeo, una giovanissima americana agli esordi, Emma Cline, ci riporta in una casa californiana simile a quella in cui alloggiava Sharon Tate la notte in cui fu assassinata insieme a tre amici dai seguaci di Charles Manson. Siamo rispettivamente nel 1975 e nel 1969, gli anni dell’adolescenza degli over cinquanta di oggi. Non c’è alcuna similitudine tra i due romanzi se non la potenza, anche mediatica, di entrambi gli omicidi che hanno finito per sedimentarsi nella coscienza sia di un contemporaneo dei fatti come Albinati, over cinquanta appunto, sia dei figli degli over cinquanta, come la ventisettenne Emma Cline raggiunta, a distanza di quasi mezzo secolo, da un’eco tanto assordante da spingerla a farne tema del suo primo romanzo.

Adolescenti che s’innamorano del delitto; gli italiani maturano l’insana passione all’interno di una rassicurante scuola cattolica, le americane nella frequentazione di una comunità hippy che rasenta la setta. Un amore che entrambi i sessi praticano con cieca militanza per conquistare una posizione, anche la più scomoda come la galera, oltre le cui sbarre qualcuno possa guardarli. Forse solo un aspetto, in due contesti storici geografici e narrativi profondamente diversi, accomuna i romanzi di Albinati e di Cline e non solo, accomuna tutte le adolescenze. I ragazzi cercano lo sguardo dei ragazzi, e le ragazze fanno esattamente lo stesso.
Molte possono essere le ragioni per cui un fatto di cronaca finisce per segnare un’epoca, ma forse la più importante è la contraddizione apparente. Come è possibile che nella Roma bene, colta, istruita e timorata di Dio degli anni ’70 si commetta un delitto come quello del Circeo?
Come è possibile che nel nord della California tutto peace&love di fine anni ’60 si commetta un massacro come quello in cui fu assassinata, tra gli altri, Sharon Tate?
L’apparente contraddizione rispetto ai contesti ci mette di fronte alla consapevolezza che il male è trasversale alle storie e alle geografie, alle classi sociali e alle ideologie. E forse, ancor di più, che il male è parte di ognuno di noi. E il fascino maledetto dei cattivi tocca tutti nel profondo.

“Alzai gli occhi per via delle risate, e continuai a guardare per via delle ragazze”. Inizia così il romanzo di Emma Cline, Le ragazze (Einaudi, 2016). Portando in nuce, in questa breve frase, tutta la sua essenza. Occhi, risate, guardare, ragazze. Inizia il percorso visivo/percettivo di Evie Boyd, la protagonista quattordicenne, attraverso l’estate nera californiana che segnerà tutta la sua vita. Un percorso degli occhi, una scrittura che è stata definita estetizzante, per la perfezione della sua forma, per l’attenzione a ogni particolare.
Il tema dello sguardo è centrale in tutta la storia: c’è lo sguardo della Evie adulta sulla Evie adolescente; Evie che guarda le ragazze, non vista, e le ragazze che si accorgono di lei; la seduzione dello sguardo di Suzanne su Evie e la sete di quest’ultima di essere notata da Suzanne. Lo sguardo disattento della mamma di Evie e l’analisi impietosa che la ragazzina fa della madre, sezionando a fettine sottili ogni suo gesto e pensiero. Come Russel guarda le ragazze e come loro desiderano essere guardate. Essere viste, sentirsi comprese nella collettività femminile per poi emergere singolarmente, ognuna come “la prescelta” dal maschio-capo. La narrazione procede attraverso continui sdoppiamenti di sguardo, dentro allo sdoppiamento fondamentale tra passato e futuro.
Le risate. Niente come la noia, la percezione di una mancanza di senso e di emozioni, la solitudine può spingere verso una vera sete di sensazioni forti. E’ una lettura troppo facile e semplicistica quella che vuole la protagonista fragile a causa della disattenzione materna (fallimento del collettivo femminile madre-figlia). Esiste una dimensione sociale che nell’adolescenza gioca un ruolo fondamentale; esiste una sensibilità rispetto al proibito e al trasgressivo che riposa sepolta entro ragioni profonde e complesse di ogni animo umano.
Era come aver trovato il passaggio segreto dietro la libreria, dice Evie. Chi può rimanere indifferente davanti a un passaggio segreto dietro una libreria?

Il non sentirsi notata della protagonista non si limita all’ambito domestico, al raggio d’azione delle figure genitoriali, ma si estende e diventa una mancanza sostanziale. Evie non si sente notata dalle amiche, o dai ragazzi, tenta di attirane l’attenzione. È scocciata dalla disattenzione dei genitori, ma è letteralmente schiacciata dalla disattenzione dei coetanei. Si giudica impacciata e insignificante. Questa è l’autostrada che la conduce diretta a subire il fascino delle “ragazze”. Esse appaiono tutto il contrario di lei, così libere, sensuali, seducenti, coi capelli al vento e le risate sguaiate. Impossibile non vederle. Viaggiano su un pulmino malandato con sopra disegnato un cuore, rubano, frugano nei cassonetti. Nel momento in cui le “ragazze” la fanno entrare nel gruppo, Evie prova l’intenso piacere di sentirsi guardata, non ero abituata a questo genere di attenzione direttiva. Basta questo a scatenare il meccanismo per cui un’adolescente (ma forse anche un adulto) può arrivare a far di tutto, pur di stare dentro al cerchio dell’attenzione. Basta questo per catapultare Evie in uno stato in cui quasi nemmeno più si ricorda la sua “vita precedente”.
La seduzione. Suzanne è irresistibile. Appare sicura, la capo gruppo, la preferita di Russel, quella che guida il pulmino, che dirige il gruppo delle ragazze. Evie ne è attratta, nulla ha più senso per lei al di fuori di quel campo magnetico. Insieme alle droghe, all’alcool e alla strampalata vita della comune, arriva anche il sesso. Il leader carismatico Russel, santone e musicista da strapazzo, manipolatore, un uomo che ti tocca con lo sguardo e con le mani, e ti fa sentire così benedetta da farti andare oltre ai suoi capelli unti, al puzzo che emana, al modo strumentale attraverso cui si serve del tuo corpo per il suo piacere. Guardati. Quella è Evie. In te non c’è altro che bellezza, dice Russel alla protagonista, ripetendo una formula suggestiva la cui efficacia è stata evidentemente sperimentata su molte altre “vittime”. Vittime tra virgolette, perché Russel non costringe nessuna a fare niente. E’ la sete di approvazione delle ragazze a far scattare il meccanismo volontario di sottomissione.

Il lettore si addentra nell’orrore e anche il suo sguardo si sdoppia. Se da un lato la Evie adulta ha un atteggiamento critico verso il passato, e continua a ripetersi che avrebbe potuto o dovuto accorgersi delle aberrazioni, dall’altro ne è ancora attratta. Julian e Sasha, giovani coinquilini accidentali nel presente presso la casa di un amico, fanno da specchio attuale alla Evie del passato. Moltissimi anni sono trascorsi, ma l’ideologia hippy, il fascino delle droghe e della trasgressione, interessa i ragazzi oggi come ieri. Julian e Sasha arrivano nella casa in cui Evie sta soggiornando proprio a causa di piccoli traffici di stupefacenti. La loro ammirazione e la curiosità sui fatti che riguardano l’adolescenza di Evie mettono l’accento sull’aspetto seduttivo che il male esercita sempre e comunque. Per i due ragazzi, Evie è una specie di eroina sopravvissuta.
Mentre si avanza attraverso la lordura fisica e morale del Ranch, la comune di Russel, intanto che si discende verso gli inferi dell’abuso sessuale, della manipolazione, della denutrizione, attraverso i cunicoli della perdita progressiva della padronanza di se stessi, sapendo che la meta sarà il massacro, l’angoscia per questa parziale indulgenza del narratore rispetto all’abiezione cresce.

Ci si interroga sullo sguardo di Emma Cline. Il nord della California, sostiene la Cline, è ancora attraversato da strascichi delle ideologie degli anni ’60; esistono ancora resti di gruppi o comuni, che per esempio vendono amache attraverso siti on line. E’ questa idealizzazione di un certo passato che Cline intende interrogare con il suo romanzo. L’operazione di costruzione ex novo della storia, che pur viaggiando sulla falsa riga dei fatti di cronaca legati a Charles Manson e alla sua “famiglia”, se ne discosta e diviene invenzione, risulta indovinata. La sostanza non cambia. Le rivediamo, queste ragazze, così come si possono vedere nei filmati dell’epoca, dentro ai loro abiti succinti, con il discrimine dei capelli lunghi al centro della testa, le gambe fuori e i volti angelici.

Colpisce, in questo duemilasedici, aver avuto a che fare con due opere diverse, lontanissime, ma in certo modo assimilabili. La scuola cattolica di Albinati, un romanzo su un crimine che ha segnato l’immaginario collettivo italiano e Le ragazze di Emma Cline: un delitto al maschile e uno al femminile. Entrambi gli autori sembrano raccontarci il fascino di una gioventù bella, ma inesorabilmente intaccata dal seme del male e da certe derive ideologiche; una gioventù di carnefici che sono rimasti ad alimentare la curiosità delle persone, esercitando sulle menti una seduzione almeno pari alla repulsione, ma di sicuro superiore all’attenzione riservata nel tempo alle persone barbaramente assassinate.

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