“Il frutto della tarda estate” è l’ottimo esordio della regista franco-tunisina Erige Sehiti, premiato al Festival di Cannes, alla Mostra di Venezia e candidato all’Oscar. Donne e uomini, giovani e meno giovani, raccolgono fichi in un frutteto, sognando amori ed esistenze diverse, tra sguardi e gesti pieni di speranza e complicità. Un film assai vicino alla vita reale, ma al tempo stesso una metafora di un paese ancora patriarcale, che cerca la strada per diventare più giusto, moderno, paritario
“L’idea dei dieci personaggi nasce dalla mia predilezione per i film corali, che trovo siano un riflesso della vita. Ci sono sempre diversi punti di vista, soprattutto sul posto di lavoro. E mi piace mostrare come ogni persona sia legata a tutte le altre”. Le parole della regista Erige Sehiti sono la migliore presentazione dello spirito e della sostanza di Il frutto della tarda estate, premiato, cosa decisamente insolita, sia alla Mostra di Venezia che al Festival di Cannes, passato in un gran numero di altre manifestazioni internazionali, da Toronto a Londra a Palm Spring, e candidato della Tunisia all’Oscar per il miglior film straniero. La franco-tunisina Sehiri è al suo primo film di finzione: regista e produttrice aveva finora al suo attivo documentari importanti, come Railway Men (2018), di successo anche nel suo paese d’origine. E certamente anche questo suo esordio nel cinema di racconto è tanto, tanto vicino alla realtà, nei fatti che narra e nei volti dei e delle protagoniste, nel loro modo di recitare (sono tutti non professionisti/e), di muoversi, di guardare (in macchina o no). In sintesi, di interpretare se stessi.
Eppure pochi film recenti rispettano come questo l’aurea regola delle tre unità che ha dominato fino a oggi tanta parte della storia del teatro (dall’antica Grecia in poi) e del cinema. Dunque c’è un unico luogo dove si svolge l’azione (un frutteto assolato nella Tunisia del nord-ovest), un unico tempo breve in cui è racchiuso il film (una giornata dall’alba al tramonto), un’azione specifica che racchiude tutte le altre, la raccolta dei fichi, frutto di fine estate come dice il titolo, ad opera di un gruppo di braccianti a giornata. La cui composizione riflette, e qui c’è indubbiamente il secondo livello, metaforico e generale, della sceneggiatura, la società tunisina d’oggi: ancora di forte impronta patriarcale è segnata da una doppia divisione, quella tra uomini (non tutti al potere, ma spesso comunque conservatori) e donne, che aspirano a un nuovo ruolo sociale e nelle relazioni familiari e sentimentali. E quella tra le ragazze, qui molte studentesse che lavorano per pagarsi la futura scuola invernale, con lo sguardo, le idee e il cuore rivolto alla modernità, e le lavoratrici meno giovani, che disperano all’idea di poter cambiar il mondo in cui hanno vissuto, alla fine non così roseo neanche per loro. E mentre raccontano e si raccontano, parlando soprattutto d’amore, le giovani postano su Instagram e intanto controllano che il velo stia al posto giusto. Le donne più anziane sono come specchi per loro, che intravedono cosa, chi potrebbero diventare se continuassero ad essere private di opportunità. Perché queste donne mature avevano forse gli stessi loro sogni, ma hanno vissuto in un paese che non li ha realizzati.
Sehiri dirige una storia immersa nella luce calda dell’estate, che parla di solidarietà femminile, resistenza, conflitto tra generazioni, ambientata in un frutteto che durante la giornata diventa teatro di emozioni e dove transitano pensieri e speranze. Così la giovanissima, deliziosa Merek, vive un amore tormentato per Abdou, che in passato ha già incontrato, rimasto orfano e legato a dinamiche familiari che sembrano impedirgli di immaginare un futuro dignitoso con lei. Sana, diciassettenne, ama Firas e vuole invece indirizzare il suo ragazzo così “moderno” verso le tradizioni. E c’è da difendersi dai soprusi, economici e fisici, del proprietario del frutteto Saber, mentre tutto si raffronta con un lavoro che è costrizione, fatica, ma al tempo stesso affrancamento. Nel frutteto, luogo di scambio, si consuma il chiacchiericcio e si stuzzica il desiderio. E dove il sole crea l’ombra si mostrano costumi in perenne cambiamento, tra i sessi, tra le generazioni, tra chi lavora e chi comanda.
I giovani dicono che le ragazze sono troppo conservatrici perché portano il velo e non vogliono essere toccate. E il film dà voce anche a loro. “Non sentiamo quasi mai ragazzi arabi parlare della loro mancanza di amore, contatto fisico e sessualità; era importante per me creare uno spazio per questa sofferenza. Sana vorrebbe che Firas fosse più conservatore, il che dimostra che questi sono anche i desideri delle donne, non sempre imposti dagli uomini. Forse è la visione dell’uomo virile. della coppia religiosa tradizionale, e offre sicurezza e stabilità, ma rende toccante anche lei”. Non sono più adolescenti ma giovani adulti. Anche nel peggio. I casi di stupro sono comuni in questi campi e il film sta un passo indietro a ciò che accade realmente, non vuole demonizzare gli uomini, suggerisce piuttosto che mostrare le cose in modo esplicito. Il padrone, che si capisce abbia rilevato l’attività dal padre, coglie le ragazze come se fossero la sua frutta. Tali molestie sono frequenti, ma non impediscono loro di essere finalmente liberate, di ridere, di essere felici perché questa è la loro vita reale.
Tutto è nato, lo racconta Sehiri, dall’incontro con Fidé Fdhili. “Sono rimasta incantata da lei. Non era molto interessata a venire al casting, ma alla fine ha fatto il provino. Le ho chiesto quali fossero i suoi programmi per l’estate e mi ha detto che avrebbe lavorato nei campi, così un giorno mi ha invitato. Sono andata a vedere lei e le altre lavoratrici, e questo ha cambiato completamente la mia idea sul film che volevo fare. Mi hanno commosso: più parlavamo della loro quotidianità, del modo di lavorare, dei rapporti con gli uomini, più mi rendevo conto di quanto materiale ci fosse da esplorare. Coglievo momenti di emozione in tocchi leggeri, portando tante modifiche alle scene, alle parole, alle intenzioni. Il set è stato molto vivo, organico, cambiava continuamente. Non ho mai dato loro dialoghi scritti, piuttosto le traiettorie dei personaggi. Poi hanno improvvisato con tutto questo, e ho riscritto di conseguenza”.
“Sono cresciuta imparando la coltivazione, la raccolta dei fichi. Osservavo mio padre, ascoltavo le spiegazioni sulla fecondazione, l’impollinazione. I fichi sono falsi frutti, fatti di fiorellini, noi mangiamo solo quelli degli alberi femminili; è anche un frutto molto sensuale, fragile ma con foglie forti, come i miei personaggi. Girare sotto gli alberi significava per noi meno possibilità di messa in scena, ma avevamo comunque una sensazione di grande libertà anche se dovevo inquadrare i personaggi più da vicino, racchiudendoli in questa cornice verde. Sentivo che delle belle inquadrature larghe avrebbero reso il film troppo arioso, aperto e mi sarei persa qualcosa di importante. Volevo trasmettere una certa sensualità attraverso gesti minimali». La soluzione è stata girare all’aperto con luce naturale, una sola macchina da presa, nessuna attrezzatura, un unico set principale. Ciò significava che la troupe dipendeva molto dalla natura e dal tempo. I fichi crescono lentamente, è il motivo che li rende così preziosi, e non puoi toccarli troppo, perché si danneggiano facilmente. Nel raccoglierli deve essere preciso e veloce.
Il ritmo del film può forse apparire a tratti lento, indolente come una soleggiata giornata mediterranea, in cui i movimenti, soprattutto di lavoro, si fanno faticosi, ma la mente e il cuore corrono veloci. E il racconto accoglie lo spettatore con immediatezza. Sotto e sopra gli alberi si consuma una giornata che concentra sogni e speranze, il passato e il presente, l’idea dei giorni a venire di un intero Paese. L’uso costante della macchina a mano della direttrice della fotografia, Frida Marzouk esplora volti, sguardi e gesti, creando un’immediata intimità coi personaggi, inseguendoli mentre avanzano portando il pesante raccolto tra i rami bassi degli alberi o si arrampicano tra le fronde alla ricerca del frutto più maturo. Viene in mente il recente Alcarras per la vena poetica dell’estemporaneo che contrasta con la sacralità del mondo agricolo visto al cinema, e ancor più il cinema di Abdellatif Kechiche, di cui riprende la flessibilità di sceneggiatura valorizzando spesso l’immediatezza, il contributo degli attori. Tra gli sceneggiatori del film c’è infatti Ghalya Lacroix, collaboratrice di Kechiche in Cous Cous, La vita di Adele e nella saga di Mektoub.
Il suono di Aymen Laabidi avvolge, ci fa sentire come se stessimo trascorrendo la giornata con le ragazze sotto i fichi, sentendo gli uccelli cantare, le foglie frusciare. La canzone che eseguono alla fine viene dal repertorio popolare tunisino, i cui testi sono molto divertenti, anche cattivi. Ma loro ci ridono sopra. Possono avere connotazioni sessuali, spesso si intonano in occasione della prima notte di nozze. La musica è liberatoria, in tutte situazioni. E loro sono al crocevia di diverse culture, hanno un’identità araba multipla. Del resto le rivalità che prima si sono viste, alla fine svaniscono tra le ragazze, legate da un destino in parte comune. “Questa solidarietà”, conclude Sahiri, “era per me più importante di qualsiasi altra cosa. Qualunque cosa accada, stanno insieme. Sorelle, cugine, amiche o tutte queste cose insieme, volevo ci fosse un forte legame tra loro. La questione dell’amore con gli uomini si può superare. L’amore che le unisce è più importante. Dopo la giornata di lavoro, si fanno belle perché non vogliono sembrare sempre braccianti. È il modo di affrancarsi da una condizione sociale. Tornano a esser donne. E io cerco di restituire loro tutta la dignità ed eleganza che meritano”.
Il frutto della tarda estate di Erige Sehiti, con Fide Fdhili, Feten Fdhili, Ameni Fdhili, Samar Sifi, Leila Ouhebi, Hneya Ben Elhedi Sbahi, Gaith Mendassi, Abdelhak Mrabti, Fedi Ben Achour, Iras Amri