Milano annovera tra i suoi meriti quello di avere delle donne alla testa di alcune tra le sue prestigiose istituzioni e rassegne musicali. La loro esperienza in una serie di interviste. Il quinto incontro è con Anna Gastel, presidente del Festival Mito.
Per incontrare Anna Gastel in questi giorni basta andare a un qualunque concerto milanese di MITO, che sia centrale o periferico, pomeridiano o serale. È dal suo primo anno di presidenza del festival, nel 2016, che la si vede arrivare ovunque in bicicletta, con la lunga treccia e un gran sorriso per tutti, sempre elegante e informale in egual misura, non per posa ma per stile di vita. Quest’anno l’avvio di MITO è stato ovviamente complicatissimo, tra norme, distanziamenti, capienze ridotte e continue incertezze. “Ma era fondamentale riuscire a ripartire, e ripartire con la musica. Il tema scelto per la rassegna ormai un anno fa, Spiriti, è stato in qualche modo profetico: durante il lockdown la musica è stata un collante spirituale, la gente suonava dai balconi e chi non sapeva suonare cantava. Tutti si sono un po’ resi conto che nel detto ‘canta che ti passa’ c’è qualcosa di vero. Io l’ho imparato tanto tempo fa”.
A cosa si riferisce?
A 49 anni ho avuto un terribile incidente d’auto in cui ho quasi perso un braccio. Ci sono volute tredici operazioni per rimettermi in sesto. A volte non potevano darmi antidolorifici, perché ne avevo presi troppi. In quei momenti cantare mi aiutava a staccarmi dal corpo, riuscivo a calmarmi, a dominare il dolore, a controllare il respiro: la voce diventava più importante dei pensieri, come nello yoga, nelle discipline orientali, ma anche nei canti liturgici, persino nel rosario. Credo sia questo lo spirito della musica.
So che anche da ragazza cantava molto: ha fatto addirittura una tournée.
Con un coro jazz di amici: avevo vent’anni ed era quasi un gioco. Quando ero ancora a casa, negli anni sessanta, ascoltavo Mina in camera mia, cantavo sulla sua voce e mi sembrava di poterci arrivare anch’io. Mi ha sempre affascinato l’unicità della voce, il fatto che sia l’unica cosa che non possiamo cambiare di noi, nemmeno dal chirurgo estetico. Ti insegna a essere te stesso.
Lei è sempre stata se stessa?
Forse inconsapevolmente, almeno da giovane. Non ero mai contenta di me, puntavo alla perfezione e mi restava soprattutto l’insicurezza. In casa eravamo cinque fratelli e una sorella: ci siamo sempre voluti molto bene ma le critiche non ce le siamo certo risparmiate. Credo che la scossa me l’abbia data l’incidente: da quel momento la perfezione non era più possibile. Sorprendentemente ho pensato che andasse bene così, che avrei cercato di fare tutto anche con una mano mal funzionante. Lì ho capito che il cervello può fare molto più del corpo, che la testa arriva prima di muscoli e tendini, che non importa come sei, ma solo come vuoi diventare.
Da giovane come voleva diventare?
C’è una frase dello zio Luchino (Visconti NDR) che mi è rimasta impressa nella mente. Quando avevo appena iniziato la Cattolica, dopo il liceo, in famiglia ci si chiedeva cosa avrei fatto. Lui disse: “Anna può fare qualunque cosa, ma se decide di diventare madre, che faccia innanzitutto la madre”.
È andata così?
Ho sempre pensato che il mio primo dovere fosse quello di occuparmi dei miei figli, che sono due tipi bizzarri e molto simpatici. Virginia più concettuale, Guido più estetico. Ma alla fine sono due facce della stessa medaglia. Entrambi si occupano di visione: lei fa la videomaker, lui il fotografo. È come se osservassero il mondo da due prospettive completamente diverse, eppure si capiscono.
Quindi la profezia dello zio Luchino si è avverata.
Avere dei figli è un’esperienza incredibile, ancestrale. È come l’amore fisico, che ti riporta a qualcosa di antico, a un ricordo che non è nemmeno tuo, ma di tutti. Credo che lo zio lo sapesse bene, nonostante non abbia avuto figli. Franco Zeffirelli diceva che c’è qualcosa di Luchino in ognuno di noi, che in un certo senso siamo tutti suoi figli. In effetti siamo tutti figli degli artisti: la loro eredità è a disposizione di quelli che verranno.
Qual è il film di suo zio che ama di più?
Probabilmente Morte a Venezia. Ho studiato a lungo il suo lavoro dal punto di vista musicale, la mia tesi era su questo. Ricordo che la prima volta che vidi Morte a Venezia ero senza parole: Tadzio simbolo della bellezza come il David del Verrocchio, che nel finale punta il dito verso l’infinito con sotto l’Adagietto di Mahler: lo zio era riuscito a trasformare la musica in un personaggio vero e proprio.
Ha anche recitato nel suo ultimo film, L’innocente.
Avevo 24 anni: una delle esperienze più incredibili della mia vita. Lo zio mi aveva chiamato perché assomigliavo alla nonna. Mi ha fatto fare tutto l’iter: mi pettinava lo stesso parrucchiere di Laura Antonelli, Piero Tosi mi ha disegnato dei magnifici costumi che poi sono andata a provare da Tirelli. Ricordo che avevo un corsetto strettissimo, che mi permetteva di fare solo pochissimi movimenti, quelli necessari per avere un portamento comme il faut. Bisognava essere sul set alle cinque della mattina per trucco e parrucco. Lì lo zio non era più mio zio ma il regista, con il suo temperamento, il suo piglio e la sua forza, nonostante fosse già molto malato.
Dopo questa esperienza non ha pensato di fare l’attrice?
Non l’attrice, ma qualcosa di simile: il banditore d’aste. Sono stata la prima donna a mettere piede sul rostro (la tribuna del banditore NDR) nella storia di Christie’s.
Come avvenne?
Dopo la laurea andai a Roma per fare un corso di Christie’s tenuto da Robert Cumming, il direttore della Tate Gallery. Un giorno ero nella sala vuota di Palazzo Lancellotti con un paio amici e per scherzo ho finto di bandire davanti a loro. Per caso in quel momento passavano di lì i capi di Christie’s di Europa e Italia, e mi hanno chiesto di bandire i successivi duecento lotti.
Sapeva a cosa sarebbe andata incontro?
Assolutamente no, ho studiato in fretta e furia il codice delle offerte e due settimane dopo sono salita sul rostro con la mia trecciona, davanti a tutto il ring dei terribili antiquari romani. Avranno pensato che fossi lì per portare l’acqua al vero banditore. Quando si sono resi conto che invece il banditore ero io hanno iniziato a rumoreggiare. A quel punto ho preso il martelletto, tutti si sono zittiti e l’asta è cominciata.
E il collegamento con il teatro?
In ogni asta c’è la riserva, vale a dire la cifra segreta concordata dal venditore con la casa d’aste. Quando la superi, vuol dire che il pezzo è venduto ed è naturale rilassarsi. Il problema è che nessuno deve accorgersene, perché gli antiquari sono lì ad aspettare che la tua voce cambi per smettere di salire.
Di nuovo l’importanza della voce.
Della voce e del ritmo, perché se sei noioso come un metronomo la gente non ti ascolta. Devi saper sedurre: per questo una donna può funzionare anche meglio di un uomo come banditore.
Perché ha smesso?
Per amore. La mia vita si è sempre svolta tra cambi repentini. E poi avevo un’età in cui urgeva avere una famiglia, bisognava rispettare la profezia dello zio.
Mi parli della sua infanzia.
Sono nata a Palazzo Serbelloni, per questo la famiglia Gola, di cui siamo sempre stati amici, mi chiamava “la Serbellina”, che fa molto Stendhal. Poi ci siamo trasferiti in via Marco De Marchi, dove eravamo un po’ uno sull’altro ma con un lessico famigliare di grande amore. Abbiamo sempre messo in pratica il testamento dello zio Guido, primogenito dei Visconti di Modrone e comandante della Folgore morto a El Alamein, che lasciò la villa di Cernobbio ai suoi fratelli scrivendo espressamente: “Non dividetevi tra di voi se non con ghirlande di fiori, come la mamma avrebbe voluto”. Questo senso di famiglia continua a guidarci da allora.
Si ricorda la prima volta che è stata alla Scala?
C’era La sonnambula con la Callas, che in quel periodo viveva praticamente con noi. Maria era come una zia: si era molto affezionata a mia sorella Cristina. Avrò avuto tre anni e ricordo che la osservavo dal palco di famiglia: camminava su questo ponticello e all’improvviso mi è sembrato che si afflosciasse su se stessa. Non riuscii a trattenere l’urlo. La mamma mi tappò la bocca e mi sgridò: “Non si urla alla Scala!”. Una volta tra le carte dello zio abbiamo trovato gli spartiti con tutti i movimenti di scena segnati: fanno capire quanto sapesse leggere bene la musica. Non molti sanno che suonava il violoncello: la prima recensione che ha ricevuto è stata sul giornale La sera per una sonata di Benedetto Marcello eseguita a 14 anni. Non è un caso che nella Caduta degli dei Gunther suoni il violoncello per il nonno, in una situazione che sembra quella della villa di Cernobbio, dove c’è il giardino della nostra infanzia, direi il segreto della nostra infanzia.
I film di suo zio sono come un album di famiglia.
Sono le sue madeleines. Per tutta la vita avrebbe voluto fare un film sulla Recherche, ma in un certo senso è come se l’avesse fatto, sparso qua e là tra le scene di tanti suoi film.
Cosa c’è di Milano nella sua famiglia?
Credo che i miei nonni rappresentino bene due anime della città. Da una parte il nonno Giuseppe Visconti di Modrone: visionario, artista, cagliostro, con idee assurde ma geniali come il castello di Grazzano Visconti ricostruito, per così dire, ‘dannunzianamente’. Dall’altra il rigore della nonna, Carla Erba, che ogni mattina svegliava i figli alle sei per farli suonare prima che arrivassero i precettori. Una donna dai valori molto chiari, infinitamente attratta dall’arte contemporanea, vicina a Rosa Genoni, a Giò Ponti, a Emilio Lancia, ma anche a Troubetzkoy, a Puccini, a Mascagni. Del resto era imparentata con i Ricordi dopo che la sorella di sua madre, Giuditta Brivio, aveva sposato Giulio.
Come vede Milano oggi?
È dagli anni di Pisapia che c’è stato un riscatto della società civile: qui il senso del fare per gli altri esiste molto più che in altre città. Me ne rendo conto grazie all’associazione Per MITO Onlus che abbiamo creato, con cui lavoriamo tutto l’anno nei luoghi decentrati, con i bambini, con realtà difficili come il carcere di Opera. Mi sembra un ritorno allo spirito della Milano di Francesco Sforza e Bianca Maria, che avevano fondato il primo ospedale della città. Credo che questo spirito resterà anche dopo il Covid.
Cosa mi dice del rapporto delle donne con il potere?
Per come sono fatta penso sempre alla persona che ho di fronte, non al suo genere. Il mondo però a volte è diverso: avendo fatto tanti mestieri me ne sono accorta. Quando mi hanno proposto di diventare presidente di MITO, ho voluto farlo a modo mio, forse femminile nel senso della dolcezza dell’approccio: se ti avvicini a una persona con un sorriso sei disarmato ma allo stesso tempo disarmante. Vorrei riuscire a interpretare lo stesso senso di pacificazione e di amore dato dalla musica. Alla fine le gioie della vita sono queste.
Immagine di copertina: Anna Gastel © Guido Taroni