Milano annovera tra i suoi meriti quello di avere delle donne alla testa di alcune tra le sue prestigiose istituzioni e rassegne musicali. La loro esperienza in una serie di interviste. Il quarto incontro è con Cristina Frosini, direttrice al secondo mandato del Conservatorio, storico tempio milanese della musica
Accanto all’ingresso del Conservatorio di Milano c’è ancora il manifesto di un concerto di Yuja Wang del 4 marzo scorso: programma da Galuppi a Berg, che ovviamente nessuno ha potuto sentire. Ma a dimostrazione che il tempo ha ricominciato a scorrere, un secondo manifesto sull’altro lato del portone annuncia la stagione CHIOSTRO 2020 che avrà inizio il 21 giugno, giorno della Festa della musica. Insomma in via Conservatorio la musica è tornata. E ce ne si accorge già all’inizio dello slargo davanti a Santa Maria della Passione, dove si sentono di nuovo gli studenti che suonano nelle aule: qualche percussione, un pianoforte, degli archi che timidamente ricominciano a provare insieme.
“In questi giorni siamo tutti felicissimi di rivedere i ragazzi: poterli guardare negli occhi dal vivo è come un ritorno alla normalità” commenta con entusiasmo Cristina Frosini nel suo ufficio dalle pareti azzurre. Al suo secondo mandato come direttrice, Cristina Frosini in Conservatorio si sente a casa, fin da quando a soli nove anni si presentò per l’esame di teoria e solfeggio.
“Mi aveva preparato mia madre, diplomata in pianoforte. Ricordo perfettamente l’aula in cui ho fatto l’esame. La bidella capa Sandra Cannone – un’istituzione! – a un certo punto entra e dice: “Passerotti, tocca a te” e io pensavo che stesse chiamando un allievo di nome “Passerotti”. Invece si stava rivolgendo a me: non mi ero mai resa conto di essere più avanti degli altri, ma in effetti ero la più piccola. Presi nove e mezzo”.
Quale fu la sua prima impressione del Conservatorio?
Lo ricordo buio. Tanto che la mia prima battaglia quando sono diventata vicedirettore è stata riportare la luce nelle aule. Dopo l’ammissione feci tutte le medie qui, al secondo piano. I bidelli all’intervallo ci vendevano le michette con la mortadella a cinquanta lire. Invece il liceo l’ho fatto fuori, avevo lezione in Conservatorio soltanto due volte a settimana: ricordo che invidiavo moltissimo quelli che potevano venirci tutti i giorni.
Cosa significava studiare qui?
C’era un orgoglio, un senso di appartenenza fortissimo, che purtroppo negli anni si è perso. Ogni volta che ci proponevano qualcosa non avevamo alcuna esitazione ad accettare. Andavamo a sentire gli amici e cercavamo di esserci sempre quando ci chiamavano per suonare: non esisteva la scusa di un concerto fuori, sapevamo bene quale doveva essere la priorità. Anche perché guai a mettere il Conservatorio in secondo piano davanti al direttore.
Che allora era Marcello Abbado.
Un direttore illuminato: quasi un padre, che decideva delle sorti di tutti noi. Alle audizioni capiva subito chi funzionava e chi no, e aveva sempre ragione.
Si racconta di concerti leggendari in sala Verdi, a quei tempi.
La più bella sala di Milano, da sempre sede dei concerti delle tre storiche società: Serate musicali, Società del Quartetto e Società dei Concerti. Poi c’era Musica del nostro tempo, prima che diventasse Milano Musica. Ricordo una splendida Petruška di Pollini, e anche un suo Secondo di Brahms con la Rai. E ovviamente Richter. Pensi che un anno suonò per tutte e tre le società: due volte molto bene, una molto male, come a volte gli capitava.
Andavate a tutti i concerti immagino.
Non ce ne perdevamo uno: altra grande differenza rispetto a oggi. Ai tempi ci intrufolavamo in sala in ogni modo. Invece oggi, nonostante le convenzioni a due euro, gli studenti vengono poco.
Qual è stato il primo concerto a cui ha assistito?
Da bambina sentii Rubinstein fare il Carnaval. Capii che volevo provare anch’io a suonare in quel modo.
E il primo concerto in cui ha suonato?
Ero già in duo con Massimiliano Baggio. Ci chiamarono da un giorno all’altro per un concerto nel teatrino della Villa Reale di Monza. Suonammo Debussy, le Epigrafi antiche, e qualche danza ungherese di Brahms. Iniziavamo un percorso a quattro mani che è durato per quarant’anni.
Come è nato il vostro duo pianistico?
Massimiliano, che attualmente è il mio vicedirettore, entrò in aula insieme al suo maestro che, per combinazione, era il marito della mia insegnante. Cercavano qualcuno che avesse voglia di fare il concerto di Bach in do minore. Mi sono proposta e non abbiamo più smesso.
Cosa la intrigava di questo repertorio?
Direi la dimensione sociale, che nel caso del pianista solista si perde. Pensi che la più grande produzione di Schubert dopo quella liederistica è proprio per duo pianistico, che io e Massimiliano abbiamo eseguito integralmente per le matinée della Verdi. In fondo cos’erano le schubertiadi se non una scusa per stare insieme? Si dimentica spesso che la musica può essere un’esperienza godereccia. Inoltre nell’Ottocento non c’erano certo i dischi: per conoscere le sinfonie occorrevano le trascrizioni. Brahms ad esempio ha trascritto per quattro mani tantissimi dei suoi lavori. Io e Massimiliano avevamo in progetto di affrontare tutta la sua musica da camera, quando ho iniziato ad avere problemi alla mano.
A quali problemi si riferisce?
Ho avuto una distonia focale, una patologia che di solito prende pianisti con le manie di perfezionismo, che studiano troppo. È dura quando capita, perché se ne sa pochissimo. A differenza degli sportivi e dei ballerini, i musicisti non sanno dove andare quando capitano cose del genere: ci ho messo tre anni ad avere una diagnosi.
È per questo che ha introdotto il corso “Far musica e star bene”?
Sono lezioni che aiutano a prevenire questi problemi, con l’aiuto dello yoga e del Feldenkrais. Noi musicisti lavoriamo con muscoli delicatissimi che sono sottoposti a un’usura ben più grossa di un quadricipite. Per questo è importante avere una buona impostazione fisica, conoscere le tecniche di rilassamento, sapere quanto studiare, come risparmiare ore di lavoro, come affrontare lo stress da palcoscenico.
I musicisti si sottopongono a stress eccessivi?
In realtà tutti hanno qualche problema, l’allievo sereno al cento percento è molto raro. Oltretutto tanti nascondono i loro disagi: io per prima l’ho fatto. Il musicista tende a colpevolizzarsi. È sempre colpa tua: se stai male è colpa tua, se hai male al braccio è colpa tua. Invece basta essere messi sulla giusta strada, fin da piccoli. Bisogna stare attenti soprattutto con le eccellenze: noi in Conservatorio ne abbiamo diverse, più di quando lo frequentavo io. Il talento può essere pericoloso.
Invece ha mai avuto problemi nella sua carriera per il fatto di essere donna?
Io non mi vedo donna, mi vedo come una che sa fare delle cose. Per questo ad esempio sono contraria alle quote rosa. Poi certo quando vado in conferenza direttori a Roma, con i direttori dei conservatori italiani, lo vedo anch’io che su una cinquantina di persone ci saranno non più di quattro donne. Ma è una cosa che non mi ha mai messo in difficoltà.
Nemmeno quando suonava?
Ora che ci penso un episodio c’è stato: avevo circa vent’anni ed ero a Roma per suonare con Massimiliano. Dopo il concerto un collega si avvicinò per dirmi che, siccome ero donna, avrei smesso presto di suonare per potermi fare una famiglia.
Cosa gli rispose?
Gli chiesi se avesse lui una famiglia. Ce l’aveva. E lui aveva smesso di suonare? No. E allora perché per me doveva essere diverso? Quando si verificano episodi del genere bisogna rispondere argomentando. A volte mi chiedono perché non mi faccio chiamare direttrice, ma non mi interessa. Chiamatemi come volete, io sono qui per fare il mio lavoro.