Milano annovera tra i suoi meriti quello di avere delle donne alla testa di alcune tra le sue prestigiose istituzioni e rassegne musicali. La loro esperienza in una serie di interviste. Il terzo incontro è con Ilaria Borletti, neopresidente della prestigiosa Società del Quartetto, terza della famiglia a ricoprire tale incarico dopo suo nonno e suo cugino. Amica di illustri musicisti, come Hans Werner Henze (morto nel 2012) e Mitsuko Uchida, la sua passione per la musica ha una storia antica
Ilaria Borletti Buitoni sembra non cedere mai al superfluo. Sottosegretario al Ministero per i Beni Culturali dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, presidente FAI dal 2010 al 2012, mentre parliamo nel suo salotto, elegante e sobrio, milanesissimo, posto discretamente in fondo a un luminoso corridoio del suo appartamento in zona Carrobbio, non le sfugge nessuna parola di troppo. I concetti sono chiari e distinti, lo sguardo cortese e rigoroso, come a voler essere certa che l’interlocutore non abbia frainteso. Eventualità che mi pare impossibile, penso mentre inizio a chiederle della sua recente nomina alla Società del Quartetto, di cui è diventata presidente dopo la scomparsa dell’avvocato Antonio Magnocavallo.
Se lo aspettava?
In effetti sì, dato che il presidente Magnocavallo, che purtroppo è stato male per un lungo periodo, mi ha cooptato come consigliere proprio con quest’idea.
Lei è la terza Borletti a ricoprire tale incarico nella storia del Quartetto.
Prima di me ci sono stati mio nonno e mio cugino. Si chiamavano entrambi Senatore Borletti, perché la mia famiglia aveva l’abitudine di chiamare i figli come i fratelli: come immaginerà, questo creava sempre una confusione terribile.
A proposito di suo nonno, la sua autobiografia (Cammino controcorrente, Mondadori) inizia proprio con un episodio che lo riguarda.
Mio nonno perse quasi tutto la notte di Natale del 1918, quando la Rinascente bruciò misteriosamente dopo appena due settimane dall’inaugurazione. Ma allora le convenzioni erano piuttosto semplici. Gli bastò dire a sua moglie: “Nanà, met su i giuiei”, e la portò alla Scala per mostrare ai banchieri la solidità dei Borletti. A quel punto furono tutti disponibili a riaprire i cordoni della borsa e la Rinascente ripartì.
La Scala come salotto d’affari dei milanesi.
Ovviamente mio nonno era palchettista. È stato anche commissario speciale del Teatro, nel periodo in cui l’ente scaligero entrava in possesso dei palchi di proprietà delle famiglie. C’è una fotografia di lui che riceve Mussolini alla Scala, insieme a Toti Dal Monte. È inutile che mi nasconda: mio nonno è stato un fervente sostenitore di Mussolini, come molti industriali dell’epoca che vedevano nel fascismo l’opportunità di un nuovo benessere. L’unica scusante che mi sento di dargli è che è morto prima delle leggi razziali, quindi non ha assistito alla catastrofe in cui l’Italia è precipitata.
Si ricorda la prima volta che è andata alla Scala?
Sì, benissimo. I miei genitori mi portavano spesso già da bambina. Pensi che avevamo in cantina un enorme busto di Arturo Toscanini di Wildt, che poi abbiamo regalato alla Scala (oggi si trova nel ridotto dei palchi ndr). Ricordo che durante la mia infanzia andavamo proprio lì a giocare a pallone: chissà quante botte avrà preso quel busto prima che mia madre si accorgesse della nostra follia.
In famiglia era sua madre la melomane, giusto?
Quando avevo una di quelle noiosissime malattie esantematiche, per cui i bambini sono costretti a stare a letto per giorni, cantavamo insieme Turandot e Madama Butterfly, lei faceva una parte e io un’altra: era un modo per passare il tempo. Inoltre suonava benissimo il pianoforte.
E lei non suonava?
Ci ho provato, ma è stato un disastro perché non ho nessun talento musicale. Io per natura non sono una persona invidiosa, ma chi ha talento un po’ lo invidio, oltre a chi riesce a dormire in aereo. Del resto si sa: quando vai a sentire un concerto e ascolti due musicisti tecnicamente affini, magari uno ha una luce particolare e l’altro no. Quanto a me, non avevo niente di tutto ciò. Ricordo che avevo una maestra di pianoforte russa: mi metteva una moneta sopra la mano perché il polso non si muovesse. Mia madre invece suonava bene, a volte suonava a quattro mani con Benedetti Michelangeli, quando veniva a trovarci a casa.
Cosa ricorda di lui?
Onestamente poco, se non alcune impressioni: un uomo difficile, riservato, complesso. Era molto amico di mia madre, probabilmente avevano trovato un loro canale di comunicazione. Allora stavamo in via Rovani, in quella che oggi è la casa di Berlusconi: gliela vendemmo nel 1972, anche se credo che non ci abbia mai passato nemmeno una notte. Avevamo una biblioteca meravigliosa.
Come in ogni tipica casa dell’alta borghesia milanese.
Anche se mia madre voleva andare oltre l’ostentazione della cultura. Tanto che, oltre ad aver creato in casa una sorta di cenacolo di musicisti e di scrittori, iniziò a curare l’attività del Centro Culturale di Palazzo Durini, che è stato il primo teatro off di Milano. Quando altrove si recitavano Goldoni e Illica, a Palazzo Durini si facevano Genet e Majakovskij, per non parlare degli spettacoli del Living Theatre. Questa minuta signora borghese ha dato il la per portare a Milano il teatro internazionale, come Le balcon di Genet. Pensi che anni dopo Strehler si servì della traduzione di mia madre, senza riconoscerlo.
Quanto durò l’esperimento di Palazzo Durini?
Circa sei anni, fino alla morte di mio padre, nel 1967. Quella di Palazzo Durini è stata una delle esperienze più belle che ricordi: andavo dietro le quinte a vedere gli attori, mi portavano in giro quando le compagnie facevano le tournée, era divertentissimo. La sala aveva trecento posti. Oggi non esiste più, anche se ovviamente esiste il palazzo, dove peraltro c’è la sede del Quartetto.
Ma qual era secondo lei il progetto di sua madre?
Credo che puntasse alla pluralità: a suo avviso anche noi alto borghesi dovevamo occuparci di cultura, che allora sembrava appartenere solo alla sinistra. Invece avere più voci può arricchire l’offerta culturale. Solo che quando mio padre mancò venne meno il sostegno economico e mia madre fu costretta a interrompere.
Anche lei ha sentito di seguirla in questo proposito?
Per mia natura mi guardo poco indietro, ma quello che ho fatto nella vita è stato frutto della convinzione che siamo tutti parte di una comunità. Perciò se uno ha ricevuto dei privilegi, e io indubbiamente ne ho ricevuti, è giusto che in qualche modo li restituisca, in base a quelli che sono i propri talenti. Per quanto mi riguarda, io sono un’organizzatrice, e so gestire il non profit con la stessa efficacia di un’azienda. Per questo di solito mi chiamano per raddrizzare organizzazioni zoppicanti, per portare un po’ di rigore in gestioni più spontanee che efficienti.
Una volta le gestioni delle istituzioni culturali erano più efficaci?
Semplicemente una volta c’era meno offerta. Oggi invece la competizione è fortissima: con i nuovi criteri ministeriali tutti hanno decuplicato l’offerta. Quindi le organizzazioni reggono solo se vengono gestite in modo efficiente, altrimenti saltano.
Eppure si parla spesso di un’età dell’oro alla fine degli anni Sessanta, specialmente a Milano.
Io non credo che ci fossero più cose, ma c’era un senso di comunità che oggi manca. Con la fine della guerra sono usciti gli istinti migliori, come sempre alla fine di queste catarsi: tutti volevano ricominciare, ricostruire. In più non dimentichiamo che Milano ha due anime, che aiutano a capire questa città: da una parte l’Illuminismo, dall’altra la grande tradizione cattolica. Questi due cappelli spiegano perché ancora oggi Milano, nonostante tutto, regga: è una città che fa rete, e che conserva in parte quel vecchio senso di comunità.
Tornando alla musica, so che era amica di Henze.
L’ho conosciuto a Montepulciano, quando cercavo di trovare dei soldi per sostenere il festival, naturalmente senza nessun successo: si immagini quanti volessero investirci. Amavo molto Hans, come del resto amavo il suo partner, Fausto Moroni, un uomo incantevole e simpaticissimo. Ricordo certe serate meravigliose nella loro villa a Marino, a sud di Roma. A un certo punto l’ho convinto a venire in Africa, dove andavo ormai da vent’anni. Quando si spostava sembrava Luigi XIV, con tutti quei bauli. Ogni tanto arrivavano delle richieste insensate: “Ili, convinci il Muezzin a spostare il microfono perché non riesco a comporre”, oppure “Portami dei fogli dalla Germania perché li ho finiti e devo scrivere”. Non era solo un uomo geniale, ma aveva un umorismo straordinario.
Un’altra sua amicizia musicale è Mitsuko Uchida.
Siamo molto amiche, voleva bene a mio marito (l’industriale Franco Buitoni ndr), che me l’ha presentata vent’anni fa. Ha persino suonato al suo funerale. Mitzuko è una donna speciale, che ha conservato tutto il rigore della sua origine, su cui ha innestato un’educazione viennese, per non parlare di trent’anni di vita in Inghilterra. È un curioso miscuglio. Io adoro il suo modo di suonare, la sua intensità. Oggi siamo pieni di bravissimi tecnici, impeccabili, ma a cui manca questa profondità.
C’è qualche eccezione tra i pianisti più giovani?
Ad esempio Johnatan Biss, che verrà al Quartetto la prossima stagione.
Quali sono stati i momenti musicali della sua vita?
Sicuramente quando ho scoperto i Lieder. Venendo da Milano, ero totalmente votata all’opera. Invece mio marito adorava la musica da camera. Del resto aveva della musica un’idea elitaria, il suo sogno era un concerto senza pubblico. Mi ricordo la mia prima Winterreise con Ian Bostridge: andai recalcitrante e ne uscii completamente rapita. È musica meno esibita, meno facile.
Invece una serata d’opera?
Sicuramente il Don Giovanni di Peter Brook diretto da Claudio Abbado ad Aix-en-Provence.
Abbado lo conosceva?
Anche lui era amico di mio marito. Adesso le dico una cosa che potrà sembrarle strana. Io mi sono accorta della grandezza di Abbado soprattutto negli anni in cui era malato: penso alle sinfonie di Mahler a Lucerna, indimenticabili.
Un’ultima domanda: ha mai avuto difficoltà, come donna, a ricoprire ruoli di potere?
Se ho avuto delle difficoltà in vita mia è stato a causa della mia estrazione, che è abbastanza evidente dai miei cognomi, e forse anche dal mio modo di fare. Il fatto è che venivo vista come una signora snob, che faceva politica giusto perché non aveva altro da fare: ho dovuto combattere per far capire che nella vita non mi sono limitata a prendere delle tazze di tè.