Milano annovera tra i suoi meriti quello di avere delle donne alla testa di alcune tra le sue prestigiose istituzioni e rassegne musicali. La loro esperienza in una serie di interviste. Il nostro secondo appuntamento è con Maddalena Novati. Dall’assunzione in Rai, all’incontro fondamentale con Berio e Stockhausen, Eco e Sanguineti, le sperimentazioni con la musica elettronica e, poi, la seconda vita con l’associazione Nomus e i concerti al Museo del Novecento, storia di oggi
«Sarà che sono un Acquario…un segno bellissimo, sempre proiettato verso il futuro: forse nasce da qui il mio interesse per la musica contemporanea», scherza Maddalena Novati, settantenne battagliera e “impegnata” da tutta la vita per la nuova musica. Oggi però si dedica incessantemente al passato, al salvataggio della memoria, in particolare dei tanti archivi che vengono affidati a NoMus, una di quelle associazioni che sembra esistano da sempre e che invece Maddalena ha fondato solo nel 2013. «Era l’anno in cui sono andata in pensione dalla Rai: mi ero portata avanti perché avevo l’horror vacui, ed è finita che mi sono riempita le giornate più di prima». Come del resto si è riempita di fondi musicali la sede di via Tito Vignoli, zona Giambellino, che per Maddalena è davvero casa e bottega: scaffali e scaffali di libri, programmi e partiture, bobine e dischi, quaderni e appunti che ricostruiscono un’epoca preziosa, tanto che il Mibac ne ha appena riconosciuto l’interesse storico. «Siamo arrivati a quaranta fondi, dall’Autunno Musicale di Como, a Bussotti, Farina, Marinuzzi, Morazzoni, Paccagnini e tanti altri compositori e musicologi che ci hanno affidato i loro archivi personali» commenta con orgoglio seduta accanto a uno dei suoi intonarumori, forse un ronzatore, o un gracidatore, insomma uno dei tanti strani marchingegni che danno a questi spazi un fascino da laboratorio futurista. «Spesso ci scelgono perché sanno che ridiamo vita a questo materiale, con concerti, convegni, libri (prossima uscita Armando Gentilucci ndr), perché mettiamo in mostra i manoscritti e ovviamente perché siamo sempre aperti al pubblico».
Qual è l’aspetto che ti affascina di più di questa ricerca?
Accorgermi dei legami tra i vari fondi: ad esempio scopri che Bettinelli è stato il maestro di Gentilucci, che è stato compagno di Degrada, a sua volta compagno della Morazzoni. Insomma questi fondi dialogano tra loro: sono certa che quando la sera me ne vado e spengo le luci qui dentro fanno festa.
Tutto è cominciato con il salvataggio del materiale dello studio di fonologia della Rai. Come andò?
Un giorno mi sono ritrovata tutti i nastri nel corridoio: li stavano mandando al macero, perché a quanto pare serviva lo stanzino dove erano conservati. Così mi sono precipitata dal nuovo dirigente per spiegare cosa ci fosse davvero in quegli scatoloni. A quel punto mi hanno incaricato di fare la catalogazione: un po’ aveva già cominciato Alvise Vidolin, ma bisognava censire ancora due terzi dei nastri. Ora le bobine sono tutte nei depositi del Castello Sforzesco in via Savona 39, e tutto il materiale è stato digitalizzato ben due volte. Invece al Museo degli strumenti musicali del Castello Sforzesco è stato ricostruito l’intero studio di fonologia.
Hai mai lavorato in quello studio, quando era attivo?
In realtà no. È vero che io sono entrata in Rai come consulente musicale nel ’79 e che lo studio ha chiuso nell’83, quando Marino Zuccheri è andato in pensione. Ma era già da diversi anni che si faceva poco: il periodo d’oro è stato alla fine degli anni cinquanta, e un po’ anche dopo il rinnovamento del ’68, quando sono stati acquistati i nuovi oscillatori.
Cos’era cambiato?
Semplicemente non c’erano più Berio e Maderna.
Nessun cambio della guardia?
Con l’inizio della computer music, le sperimentazioni sono passate dagli studi radiofonici ai centri di calcolo delle università: basta pensare all’Ircam a Parigi, da noi al centro di sonologia computazionale di Padova. Poi la tecnologia è diventata home producer e si è cominciato a fare tutto col computer di casa: non c’era più bisogno di studi enormi come quello di fonologia.
Qual è secondo te la differenza tra questi approcci?
Il punto è che all’inizio si stava cercando un nuovo linguaggio: è questo che facevano Berio e Maderna quando si sono messi a scandagliare tutti i suoni elettronici, i mattoni per costruire la casa. Una volta finita questa prima fase, si è passati alla live electronics, perché il suono elettronico da solo era duro da sostenere in concerto. Se ci pensi è il discorso iniziato da Maderna con Musica su due dimensioni, strumenti tradizionali e suoni sintetici insieme. Invece la computer music, partita dal lavoro di Pietro Grossi, non mi pare abbia avuto un grande sbocco. Era più interessante il discorso sulla spazializzazione sonora di Stockhausen e Nono. Del resto Berio stesso ha scritto che la musica elettronica sarebbe diventata solo uno dei tanti strumenti a disposizione del compositore.
A proposito di Berio, come fu lavorare con lui su Outis?
Credo sia l’unica persona che mi ha fatto piangere in vita mia. Era la seconda volta che si faceva Outis alla Scala, ma nel 1996 era andata solo in radio, mentre nel 1999 fu ripresa anche dalla televisione. Il fatto è che Berio mi rimproverò perché avevo cercato di tirare fuori il canto, che era sommerso da migliaia e migliaia di altri suoni. Pensare che mi ero dannata l’anima per riuscire a farlo emergere, per renderlo intellegibile. Invece lui si lamentò del solito costume degli italiani di voler sentire a tutti i costi la voce, che invece è solo uno dei tanti strumenti.
Aveva ragione lui?
Certo che aveva ragione! Poi, continuando a lavorare insieme è nato tra noi un bellissimo rapporto: aveva molta fiducia in me. È stato con lui che ho capito che i grandi artisti non solo sanno spiegarti cosa sbagli, ma si mettono a lavorare con te per raggiungere il risultato.
Hai conosciuto altri grandi artisti in questo senso?
Ad esempio Boulez. Con Dérive alla Scala si metteva in regia con partitura in mano e mi spiegava perché gli strumenti dovessero avere lo stesso bilanciamento, e che se non ci fosse stato durante l’esecuzione sarei dovuta intervenire io con il dosatore. Poi ricordo una nottata intera passata in Duomo con Stockhausen per studiare il modo in cui si poteva dare agli ascoltatori l’idea dell’ambiente, con la circolarità, i ritorni, quasi i rimbombi del suono.
Hai avuto fin da subito questa predilezione per la musica nuova?
Mi piaceva. Sono stata allieva di Carlo Napoli, figlio del direttore del Conservatorio Jacopo Napoli, che ci obbligava a sostenere i giovani compositori. È così che ho cominciato a seguirli, a fare propaganda.
Come una sorta di militanza?
Non esageriamo, anche se in effetti mi ha sempre interessato, tanto che sapevo di fonologia ben prima di andare in Rai. Ovviamente questa competenza mi è servita al momento della selezione.
A quando risale il tuo incontro con la musica?
Ho cominciato a leggere e scrivere le note prima ancora delle parole, quando ero sfollata a Bareggio durante la guerra. Non c’erano scuole nelle vicinanze, e il figlio del sindaco, che studiava al conservatorio, mi dava lezioni. Mia madre amava molto la musica, ci teneva che imparassi a suonare.
Tanto che poi hai iniziato a insegnare musica.
Non avevo le doti per essere una pianista, quel tipo di carriera non mi interessava, così ho pensato che l’insegnamento fosse una buona soluzione. A Parma c’era Carlo Delfrati che teneva il corso di didattica della musica e, dato che le graduatorie erano vuote, dopo il diploma ho iniziato a insegnare.
E a scrivere manuali.
Perché ho subito accettato una sfida: capire come proporre ai bambini anche la nuova musica. Allora seguivo molto la Siem (Società Italiana per l’Educazione Musicale ndr) fondata da Delfrati, seguivo corsi di aggiornamento, tenevo rubriche. Poi ho scritto dei libri di testo, dove non ho mai inserito nulla che non avessi sperimentato prima in classe. Capii subito che il problema della scuola non sono mai gli alunni, se mai sono gli insegnanti.
Perché hai smesso di insegnare?
Mia madre voleva che tornassi a Milano, e poi c’era il concorso in Rai, che vinsi. A quel punto non ho più avuto tempo di dedicarmi ad altro: ogni settimana un repertorio diverso da studiare. Oltretutto avevo la fortuna che la maggior parte dei miei colleghi non amava la musica contemporanea. Eravamo quattro consulenti: tutte donne. Anche l’ultimo tecnico con cui ho lavorato era una donna.
È stato più difficile per voi fare carriera?
Il problema è che se sei una donna devi sempre dimostrare tre volte tanto. D’altra parte i nostri erano dei posti operativi: quindi o sapevi leggere la partitura, o non la sapevi leggere; o avevi l’orecchio assoluto, o non ce l’avevi.
È molto cambiata la Rai nei trentacinque anni in cui ci hai lavorato?
Una volta in Rai giravano giovani come Berio, Sanguineti, Eco, ben prima che diventassero quelli che poi sono diventati. Insomma, si assumevano dei talenti veri. E anche per quanto riguarda la dirigenza, la questione della lottizzazione faceva sì che nei posti di maggior visibilità si cercasse di mettere i migliori. Oggi mi sembrano tutti dei politici.
E come vedi la musica del futuro? In fondo gli autori di cui abbiamo parlato sono storicizzati…
Ormai sono quasi storicizzati anche Gervasoni, Ambrosini e Francesconi. A dire il vero non è che veda tanti grandi in giro, anche se per carattere non sono mai stata catastrofista. Ma io ormai sono fuori: bisogna dare fiducia, a patto che si capisca dove si vuole andare.
Negli anni settanta si sapeva di più dove si stava andando?
Sì, magari sbagliando. Però si sapeva. Oggi siamo influenzati da troppe cose evanescenti e virtuali, non c’è più l’artigianato che avevano i personaggi che ho conosciuto. Mi viene in mente Bussotti, che può comporre, ma anche fare il pittore, lo scenografo, sa di stoffe e può distinguere tra il raso e il taffetà. La cultura deve poter essere anche molto concreta.