C’è un’arte e un incanto nell’essere spettatori: nel suo ‘Io li conoscevo bene’ che ha per numi tutelari Fellini e Proust il critico Maurizio Porro ci accompagna in una vita spesa felicemente tra teatro e cinema, tra protagonisti, comprimari e soubrettes, scintillio di paillettes e drammi cechoviani, nellla promessa di un sipario che continua ad aprirsi ogni sera
Vale la pena una vita vissuta tra cinema e teatro? La risposta diventa facile dopo aver letto Io li conoscevo bene di Maurizio Porro, uscito per La nave di Teseo, memoir-confessione di una insanabile e contagiosissima cine-teatrofilia, ma anche romanzo d’amore sullo spettacolo inteso in ogni sua declinazione. Perché, che sia alto o basso, colto o popolare, la somma darà sempre risultato positivo, dal momento che ogni “pezzettino piccolo di felicità” raccolto in una platea resta dentro di noi per formarci, plasmarci e a volte cambiarci per sempre. Tra queste pagine il giornalista e critico del Corriere della sera sogna, anzi rivive una delle decine o forse centinaia di serate a casa sua circondato dal Gotha del teatro e del cinema, sia quelle reali sia quelle immaginate, che non sono meno vere delle prime. Ci sono tutti, venuti per rispolverare ricordi e confidenze, pettegolezzi e malignità, ma soprattutto per mangiare il mitico risotto giallo di mamma Porro, adorato da Fellini e da Mastroianni fino all’ultima forchettata.
Chissà che in queste pagine non si riesca a risalire all’origine della magnifica ossessione: l’inizio, il primo sintomo, il morso della tarantola che ha dato il via a un per niente breve incontro con la messinscena della finzione, in pellicola e in carne ed ossa. Forse la solita Biancaneve, che però sembra passare indenne nella memoria di Porro bambino, senza particolari turbamenti, anche se la regina cattiva (già indicata da Woody Allen come causa delle sue disavventure sentimentali) ha la voce di Tina Lattanzi, doppiatrice di Greta Garbo, Marlene Dietrich, Joan Crawford e quindi artefice del birignao melò che lo conquisterà pochi anni dopo. Ma più importante ancora è la benedizione della soubrette, che col suo tocco magico molto felliniano accarezza il piccolo Porro seduto in un palco di proscenio con il papà, che lo porta a guardare le riviste perché tanto un bambino i doppi sensi non li capisce. Poi però quando la maestra gli chiede di cantare una canzone il primo giorno di scuola, lui ne sceglie una di Wanda Osiris, con grande scandalo e genitori convocati.
Insomma, una subrettina come Berma: la folgorazione per l’altro mondo, nel senso della scena, non arriva per forza dai pepli della Phèdre, come per il piccolo Marcel. Stavolta sono i lustrini e le passerelle a incantare per primi in ordine cronologico la mente e il cuore di questo spettatore insaziabile, che passerà poi ai Čechov e ai Brecht, all’intellettuale e all’impegnato, ma senza mai scordare il tempo perduto di quelle visioni proibite, kitsch e poetiche insieme, consustanziali – per dirla religiosamente – a ogni atto teatrale che si rispetti.
Numi tutelari di questa “recherche” sono, si sarà capito, Proust e Fellini, due nomi che non potrebbero sembrare più lontani e che invece, capiamo leggendo, si parlano segretamente. Perché 8½ è l’opera della crisi, del blocco esistenziale, della perdita del baricentro da cui si può guarire solo mescolando ricordi e speranze, percezioni e sentimenti, fino alla decisione finale di girare il film che abbiamo appena visto, proprio come il narratore nel Tempo ritrovato decide di scrivere il romanzo che abbiamo appena letto.
Ma proustiano (o felliniano, tanto è lo stesso) è anche il modo in cui funziona l’inconscio del Porro spettatore, che racconta i film e gli spettacoli come se li stesse vendendo in quel momento: voci che riemergono da un sottofondo polifonico per suggerirgli analogie, differenze, battute di spirito (si ride molto), risposte alle domande più importanti della vita, come alle più futili. Sono tanti i motivi ricorrenti: la creatività e libertà assoluta della rivista con i demiurghi del varietà Garinei e Giovannini, l’annus mirabilis 1960, quando La dolce vita, L’avventura e Rocco e i suoi fratelli escono uno dopo l’altro e il cinema diventa il vero specchio del Paese, o ancora l’unica scandalosa recita dell’Arialda di Testori nel 1961 al Nuovo (splendido l’elenco dei cinema e teatri milanesi in coda al libro, la maggior parte chiusi). E si potrebbe continuare a lungo, immaginando quelle nebbie e quei tram perduti di corso Buenos Aires, dove oggi si litiga per le ciclabili.
Così pagina dopo pagina ci si ritrova sempre di più in una Rosa purpurea del Cairo, ma al contrario. Se Woody Allen portava il cinema nel mondo, letteralmente, con Jeff Daniels che esce dallo schermo per consolare Mia Farrow, il nostro autore riporta il mondo nel cinema. E lo fa accompagnandoci al di là dello schermo, oltre ogni quarta parete, non tanto per consolarci né per consolare se stesso, ma per ricordarci che in quel mondo di fantasia e finzione (ma più vero del vero) ci sono tutti i sensi e significati di cui abbiamo bisogno.
Non manca la nostalgia. Anzi, si può dire che la nostalgia sia la materia di cui è fatto ogni spettacolo, vecchio e nuovo, da Strehler a Ronconi, da De Lullo a Latella (l’unico di oggi citato, a ragione, tra gli innumerevoli nomi riportati nella preziosa e ricchissima appendice). E paradossalmente, per Porro, sembra sia proprio l’effimero del teatro a renderlo eterno: un attimo fuggente che entra nel nostro codice genetico come per caso, che sia una frase di zio Vania, un accento della Melato o della Cortese, o il servo Firs che si avvolge nel sudario alla fine del Giardino dei ciliegi. Per parafrasare sdisOrè di Testori (forse terzo nume tutelare), ogni spettacolo è unico e irripetibile nel qui ed ora della scena: quello che è accaduto stasera, non accadrà mai più nello stesso modo.
Ma c’è di più, perché secondo Porro vale anche per il cinema: persino un film, nonostante la sua riproducibilità tecnica, avviene solo qui ed ora. Un po’ perché in passato al cinema si entrava in qualunque momento, e si restava in sala finché il film non ricominciava e si sentiva la battuta di quando si era entrati. Ma soprattutto perché siamo noi a cambiare, e con noi cambiano i film che abbiamo visto e che ci abitano dentro. È una sorta di rivoluzione copernicana: al centro c’è lo spettatore, con le sue storie e le sue emozioni che entrano in risonanza con le storie e le emozioni proiettate sullo schermo. Al punto che può capitare che, vedendo un film riuscito, “ti accorgi che c’è in sala uno strano silenzio, una sospensione del reale: ed è allora che siamo tutti come i personaggi in scena o sullo schermo, per un momento legati da uno stesso destino che poi elegge la nostra memoria a stabile dimora e nascondiglio”. Passaggi come questo non sono più solo memoir, né cronaca di un appassionato, né storia sociale e culturale dello spettacolo italiano, ma diventano letteratura.
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