Presentata al Maggio Fiorentino, l’Opera di Aribert Reimann è una rilettura più cupa che mai della tragedia del Bardo inglese. La regia di Calixto Bieito, sostenuta dalla direzione orchestrale controllatissima di Fabio Luisi, ricostruisce con efficacia la violenza ancestrale di questo gruppo di famiglia made in Shakespeare
In fondo a Reimann è andata piuttosto bene perché, se Verdi non si fosse arreso con il suo Lear, si sarebbe trovato con un rivale difficile da battere in territori scespiriani. Invece il campo era libero per un’opera sul vecchio re-padre tra i più maltrattati della storia del teatro, e il “Maggio” ha potuto aprire l’ottantaduesima edizione con il titolo più celebrato del compositore tedesco, 83 anni, presente in sala sia alla prima del 2 maggio sia alla replica di domenica 5 (domani l’ultima). Un’opera che ha avuto e continua ad avere buona fama e circolazione; persino in Italia, almeno con la coppia Ronconi-Palli al Regio di Torino nel 2001, prima di quest’ottima produzione di Calixto Bieito del 2016 importata dall’Opéra di Parigi (qui sotto) , oggi come allora autorevolmente diretta da Fabio Luisi, che si rivela un attento e appassionato interprete del repertorio post-espressionista.
Dunque quello che per Verdi è stato il titolo cruccio per eccellenza, mai completato se non per qualche reminiscenza nel finale di Rigoletto, ha avuto la sua realizzazione più importante grazie a un’intuizione di Dietrich Fischer-Dieskau, che convinse il suo pianista accompagnatore, guarda caso anche solidissimo membro delle avanguardie del dopoguerra, appunto Reimann, a scriverla per lui nel 1978 con libretto tedesco di Claus H. Henneberg. Evidentemente solo il passaggio Berg-Hartmann-Henze-Zimmermann poteva permettere di compattare cinque atti vastissimi di trame e sottotrame, così intrecciate tra loro “che sembra impossibile cavarne un melodramma”, scriveva Verdi a Cammarano nel più completo sconforto. Così Reimann alterna scene e interludi in perfetto stile Wozzeck e si serve della serialità, come allora usava, per caratterizzare i personaggi, al prezzo di qualche semplificazione ma col vantaggio di maggiori connessioni drammaturgiche in partitura.
Non sorprende che l’opera, cupa più che mai, sia costruita sulla violenza ancestrale di questo gruppo di famiglia made in Shakespeare, anche se non mancano inattesi momenti lirici (quasi) tonali e parentesi dall’atmosfera diafana, sempre inquietante ma più delicata, con canti alla luna e una sottile nostalgia che si distende su un mondo senza più speranze. Un mondo in frantumi fin dalla prima scena, in cui il vecchio re getta pezzi di pane raffermo alle figlie come se fossero animali, geniale intuizione di Bieito per rappresentare un’eredità anticipata e disgraziata che scardina ogni ordine in terra e in cielo: “Der Mund zerfleischt die Hand, weil sie ihm Brot gibt” dirà Lear nella tempesta (“la bocca sbrana la mano perché le ha dato il pane”), proprio quando la scena-gabbia di Rebecca Ringst, fatta di assi in legno, ha appena iniziato a sfaldarsi. Poi lo spettacolo prosegue alternando simbolismi e naturalismi con un po’ troppa disinvoltura e con effetti non sempre efficaci, anche se l’immagine di Lear nel finale, fragile, seminudo e con le mutande sporche, è di quelle che restano impresse per sempre.
Luisi dirige l’ottima orchestra del “Maggio” con un controllo assoluto della partitura, da cui sa trarre l’energia e il dolore necessari alla tinta di questa tragedia, che non è solo brutale ma piena di spettrale irrealtà. Certo un’operazione del genere non funziona senza un cast in grado di commuovere e addirittura turbare il pubblico. A cominciare ovviamente dalla parte del protagonista, che non solo nasce dalla penna di Shakespeare, ma è stata riscritta per un grandissimo come Fischer-Dieskau: per fortuna Bo Skovhus ha l’autorevolezza, la tecnica e l’espressività per reggerla. Ma funziona alla perfezione anche il resto del cast, in particolare la cattivissima Goneril di Angeles Blancas Gulin, la Cordelia di Agneta Eichenholz e il bravo Andrew Watts, tenore per Edgar che si traveste da controtenore per Tom. Il matto “parlato” è di Ernst Alisch.
Immagine di copertina: Lear © Michele Monasta