Parla Lech Kowalski, gran testimone della stagione punk newyorchese, ospite n. 1 di “Filmmaker”: seguite con Cultweek il festival milanese del cinema giovane e sperimentale
Torna a Milano il Filmmaker International Film Festival, rassegna-concorso di cinema off in tutte le sue forme. Dal 28 novembre (apre Jauja di Lisandro Alonso con Viggo Mortensen) all’8 dicembre lo Spazio Oberdan e i cinema Arcobaleno e Palestrina (più un evento speciale alla Galleria d’Arte Moderna di Milano) ospiteranno le proiezioni di film in concorso; opere di giovani esordienti, retrospettive di autori affermati, installazioni, focus ed eventi sotto il denominatore comune della sperimentazione artistica sul grande schermo.
Vetrina storica e primo palcoscenico importante per diverse generazioni di cineasti (Silvio Soldini, Giovanni Maderna, Marina Spada, per citarne alcuni), Filmmaker lavora da anni con grande impegno alla crescita di nuovi talenti, collaborando con la Civica Scuola di Cinema di Milano e con le realtà che compongono il Milano Film Network, proponendo seminari, workshop e concorsi riservati al mondo della didattica.
A Lech Kowalski, regista e documentarista cui è dedicata la retrospettiva di questa edizione del festival, il compito di inaugurare, il 30 novembre alla Fabbrica del Vapore, il primo dei laboratori in programma: la masterclass “Filmare il Conflitto”. Kowalski è uno dei principali testimoni del movimento punk newyorkese, sostenitore da sempre di un cinema dalla parte degli oppressi e dei sopravvissuti, e racconta qui il suo lavoro a Cultweek (che offre ai suoi lettori una serie di sconti e biglietti gratuiti per le proiezioni di Filmmaker).
Lei viene definito uno dei maggiori testimoni del movimento punk degli anni ’70, e ha girato vari film sulla scena di quegli anni (uno su tutti, Born to Lose, sulla vita del cantante Johnny Thunders, morto di overdose a 39 anni): perché tanto interesse per quel mondo?
In realtà è una di quelle cose a cui ripensi dopo anni di distanza, per chiederti cosa fosse davvero, e quanto ci fosse di reale. Io volevo già fare cinema, anche se all’epoca non avevo un soldo, e quell’ambiente mi incuriosiva, era molto suggestivo: c’erano luoghi simbolo, come il CBGB di New York, sempre buio, con il biliardo, gli Hell’s Angels, e altri luoghi meno conosciuti in cui trovare un mondo che sembrava dire «basta con tutte queste stronzate!». Ora quei posti non ci sono più, ma non ha senso rimpiangerli, erano i simboli della loro epoca.
Il lavoro del documentarista si divide spesso tra testimonianza diretta, e raccolta, conservazione delle memorie di chi ci ha preceduto. In East of Paradise intervista sua madre: come le è venuta questa idea?
Non ho mai vissuto bene la mia condizione di immigrato negli Stati Uniti: non ero dentro le mode, non giocavo a baseball. Sapevo che prima o poi avrei dovuto fare i conti col mio passato e il conflitto tra la realtà in cui vivevo e quella che avevo ereditato. Ma, soprattutto, in qualche modo invidiavo le battaglie per la sopravvivenza che i miei genitori avevano dovuto superare. Però non mi è mai piaciuto il genere del film-intervista, l’ho sempre trovato noioso: quello con mia madre è stato un lavoro artistico, abbiamo scelto insieme tutto, dalla maglietta che avrebbe indossato all’angolazione delle riprese. Ho filmato le sue testimonianze per mesi, è stato un modo per entrare in contatto con lei, per scoprire cosa eravamo l’uno per l’altra.
Anche lei, in qualche modo, è un sopravvissuto?
Sono sopravvissuto alla mia vita! [ride]. Ho passato la giovinezza in un ambiente, in un periodo a cui molta gente non è sopravvissuta, per la droga, l’aids e altro. E mi sono trovato a volte abbastanza vicino alla morte. Quindi sì, in un certo senso sono un sopravvissuto, anche se in modo del tutto diverso dai miei genitori. Non ne vado fiero, è solo qualcosa che all’epoca poteva capitarti. Ma considero sopravvivenza anche l’essere sempre riuscito a fare cinema come volevo, nonostante tutto, è una cosa di cui sono davvero molto contento.
Lei è nato a Londra e cresciuto negli Stati Uniti. Che relazione ha con la patria della sua famiglia, la Polonia? C’è un luogo che chiamerebbe casa?
Un rapporto speciale con la Polonia ce l’ho, certo. Mi piace molto, soprattutto l’est con le sue campagne, gli spazi verdi, ma non credo che la potrei definire casa mia. Sono cresciuto in tanti posti, quasi tutti negli Stati Uniti, ma è una nazione in cui non vivrei mai. Lì ho amici, alcuni piuttosto benestanti, professori universitari e altro, ma anche loro lo descrivono come un Paese che soffre. Un Paese pericoloso, per se stesso e per gli altri, capace di buttare soldi in distruzione mentre al suo interno intere città cadono a pezzi. Credo che solo la mia testa sia un po’ la mia casa.
Qual è il suo posto, dietro la cinepresa: preferisce stare al di sopra dei personaggi di cui parla, che intervista, o si considera uno di loro?
Bella domanda: innanzitutto per me fare un film non vuol dire limitarsi a documentare, è un lavoro di estetica, di arte. Cerco sempre di trovare la prospettiva giusta per evidenziare i sentimenti delle persone, e senza mai instaurare un rapporto troppo frontale, anzi. E quando le persone che filmi si dimenticano della cinepresa, possiamo dire che avviene la magia. Da regista preferisco a volte vedere dove il film mi porta, scoprire a fine giornata, guardando il girato, dettagli e momenti a cui non avevo pensato affatto.
In molti lavori ritorna l’essere contro, l’opporsi a un modello di potere, economico e sociale che, per dirla con le parole di Johnny Thunder, ci rende tristi, ci fa paura. In Holy Field, Holy War, è più chiaro l’impegno politico e la denuncia di un abuso sulla natura oltre il livello di guardia. Anche in questo caso parliamo di lotta per la sopravvivenza?
In un certo senso sì. Un tempo l’umanità cercava di spingersi al limite sul piano culturale, con le battaglie per i diritti, la sessualità, i movimenti e i loro eccessi. Oggi tutto questo è superato e ci si spinge al limite nel rapporto col mondo e con l’ambiente. Non ho mai voluto fare a tutti i costi un cinema impegnato, ma oggi in certe situazioni ti ci trovi: viviamo in un mondo governato da grandi corporation e le figure come il piccolo contadino, l’allevatore, il produttore di cibo biologico, sono i nuovi ribelli, sono i punk dei giorni nostri.
Che consiglio darebbe a chi oggi s’avvicina alla sua professione?
Quando vado al cinema mi interessa vedere il messaggio del regista, e come lo esprime. Un film non è fatto per forza di grossi budget e perfezione formale, non è matematica. Può anche essere imperfetto, a patto che non dimentichi l’espressione artistica, il sentimento. Il cinema di Hollywood oggi li ha abbandonati, è tutto uguale, non racconta più niente.
Filmmaker Festival a Milano, 28 novembre-8 dicembre, ai cinema Arcobaleno e Palestrina, e allo Spazio Oberdan
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