L’Oedipus di Sofocle – pardon, di Bob Wilson – in prima mondiale al Teatro Grande di Pompei il 5, 6 e 7 luglio nell’ambito della rassegna del Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale
(FOTO DI LUCIE JANTSCH)
Sofocle quasi non pervenuto. Molto Bob Wilson, quasi tutto Bob Wilson, spettacolo dietro altro spettacolo. Fin da prima dell’inizio quando si entra nel Teatro Grande di Pompei e si trovano la skené pennellata di luce diaccia in contrasto con le prime ombre nel cielo, l’orchestra diventata un immenso gorgo oscuro e un bianchissimo tubo ritorto piantato nel palco, enigma nodale posto dalla sfinge ma anche esistenza umana e universale da risolvere.
È Wilson e nient’altro che Wilson. Le geometrie nella drammaturgia sottolineano la struttura ciclica del testo in cinque capitoli internamente speculari mentre le geometrie sulla scena esaltano la frontalità cartesiana sempre fondamentale nella poetica del regista, qui ripresa dalle icone bizantine piuttosto che dalle figure dell’arte micenea.
Dell’originale di Sofocle resta ben poco, lacerti sparsi, corrosi frammenti, versi ripresi e ripetuti a singhiozzo come da un disco dai solchi che saltano; ad essere ripetuti più e più volte sono invece i singoli avvenimenti, l’ossessiva e martellante sinossi da mai dimenticare: la funerea profezia, la vita di Edipo lontano da Tebe, il responso dell’oracolo, l’omicidio di Laio, l’incontro con la sfinge, l’accoppiamento con la madre, la peste, la orribile scoperta, il suicidio di Giocasta, l’autoaccecamento e l’esilio.
Le voci e i personaggi arrivano e agiscono da ogni dove, dal palco come dai corridoi della cavea, dalle lontananze del pulpito o dai pàrodi, col pubblico al centro sempre e costantemente assediato e insidiato dagli eventi. Perché è nel suono e nella luce che Wilson vuole immersi gli spettatori sottratti a qualsiasi zenit o nadir, disponibili e condannati come il protagonista a vedere la verità “vera” senza l’uso della vista ma solo dentro il buio della propria più totale cecità.
Nell’astratto, nel simbolo, nella musica, tra l’organo di Bach e il jazz, tra il sa-ri-ga-pa-dha indiano e il pop o la discomusic. Grazie al potere dell’ombra che genera la luce e alla ritrovata potenza del lume che attinge all’oscurità, la potenza del silenzio si fa parola e il verbo trova il suo senso profondo solo nel silenzio.
Le note strazianti strappate da Dickie Landry al proprio sax evocano dai gorghi della notte la tragedia e le danno forma nel lampo abbagliante ove si plasma il butoh solista prima di cristallizzarsi nell’iconico still life dei personaggi principali. Tutti rigorosamente bidimensionali. Il teatro Nō per il narratore, il fauno Nijinsky per l’archetipico Edipo, Giocasta strappata al batik africano, l’iconografia ortodossa per Tiresia. Fuori da ogni sviluppo tragedia-mimesi-catarsi, ci vengono offerti tempi e modi di soffermarci solo su immagini dai legami misteriosi, di riconoscere segni già incisi sulla sena da Wilson, con la foresta di Birnam che si collega con la processione votiva del rito o la brechtiana Seereuberjenny che torna sui medesimi passi dei miti La Galigo.
Le lingue si intrecciano ma il francese, il tedesco, l’antico greco o l’italiano non dialogano tra loro, si parlano attraverso concetti enunciati più che approfonditi, identici echi di civiltà differenti imparentate da un mistero che tremila anni di storia non hanno ancora risolto, modello che si può raccontare ma non riprodurre.
Forse il corpo dell’attore in scena può provare a ripetere l’azione e Laio con i 4 compagni può essere ucciso ogni sera in una danza tribale elaborata sulle note del Canone di Pachelbel e pestata su una lastra di metallo in falso equilibrio su un’asta di legno, ma il significato di quel gesto primario equivale al marchio inciso sulla fronte di Caino, in eterno eredità incancellabile nella stirpe umana e nella sua storia.
Neppure nel nihilismo di un bauschiano Café Müller (esplicita citazione finale) è dato di elaborare una soluzione o intravedere il riscatto dalla colpa di essere uomini. Nel suo lavoro logico e algido, criptico e nitidissimo, nella sua ricercata distanza da ogni empatia con lo spettatore, il regista americano sottolinea il quesito di Edipo “Chi fu mio padre? Chi fu mia madre?” e gli risponde con parole di Sofocle “Edipo non ti avessi conosciuto mai”. Forse in settembre, quando lo spettacolo approderà al Teatro Olimpico di Vicenza, le architetture rinascimentali del Palladio gli parleranno con una differente risposta.