Quarant’anni fa veniva approvata la legge 180, nota anche come legge Basaglia dal nome di chi maggiormente lottò perché si arrivasse alla chiusura definitiva dei manicomi. All’Ospedale Psichiatrico di Trieste, dove Franco Basaglia era direttore, si tenne nel 1973 il laboratorio da cui uscì Marco Cavallo, scultura in legno e cartapesta che divenne il simbolo della “liberazione dei matti”. Ne abbiamo parlato con Peppe Dell’Acqua, lo psichiatra che lavorò a Trieste con Basaglia diventando uno dei protagonisti di quel movimento di cui ancora oggi porta avanti le battaglie
Il 13 maggio 1978 veniva approvata la legge 180, la legge Basaglia dal nome del grande riformatore della psichiatria che fortemente la volle e che creò le condizioni perché si concretizzasse quella straordinaria rivoluzione tutta italiana che fu la chiusura definitiva dei manicomi. All’Ospedale Psichiatrico di Trieste, il luogo da cui quell’onda di rinnovamento ebbe origine e di cui Franco Basaglia era direttore, si tenne nel 1973 il laboratorio che rivoluzionò il concetto stesso di attività creativa, passando da quella sorta di sterile intrattenimento per dementi quale era all’interno dei manicomi a strumento di riappropriazione dell’identità e della dignità di persone. Dal laboratorio del padiglione P uscì, sfondando mura e reticolati, Marco Cavallo, simbolo della “liberazione dei matti” e alfiere ancora oggi di tutte le battaglie contro lo stigma, l’emarginazione e la repressione del malato mentale, dalla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari all’abolizione della contenzione. Ne abbiamo parlato con Peppe Dell’Acqua – psichiatra e scrittore, per anni direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e oggi direttore della Collana 180 per le Edizioni AlphaBeta – che dal 1971 ha lavorato con Franco Basaglia all’Ospedale Psichiatrico di Trieste, dove ha partecipato al cambiamento e alla chiusura del manicomio e ha condiviso l’esperienza di quel laboratorio.
Il laboratorio del Padiglione P, da cui nacque Marco Cavallo, è stato un evento straordinario che è diventato simbolo delle battaglie per liberarci dalle istituzioni totali e per interrogarci sulla natura della malattia mentale. Come considera la relazione tra creatività e disagio psichico?
Il rapporto arte e malattia mentale nasce da un fraintendimento. Abbiamo conosciuto e conosciamo molti artisti “matti” e tanti internati negli ospedali psichiatrici. Abbiamo alimentato un luogo comune: la follia genera l’arte, l’arte è follia. In realtà l’attività creativa e artistica si muove in un campo che solo accidentalmente, e dolorosamente, incontra l’istituzione psichiatrica e la malattia mentale. Se follia e arte possono trovare molti punti di contatto, imprigionare la creatività nella definizione di malattia mentale, delle psicopatologie e degli improbabili usi terapeutici è stato quanto mai dannoso. Per dirla con Foucault, la malattia mentale si definisce nel momento in cui la ragione domina la follia: la sragione. Da questo momento i folli, liberati dalle catene degli ospizi dall’umanissimo atto di Philipe Pinel, diventano malati di mente, rinchiusi dietro le mura dei manicomi e costretti nella definizione insormontabile della malattia mentale. La pittura, l’arte, le attività plastiche e soprattutto manuali entrarono nei manicomi con intenzione terapeutica ma finirono per essere dei momenti di intrattenimento assolutamente senza un fine. I laboratori che si trovavano e si trovano in tutti i manicomi del mondo sono esattamente il contrario di quello che si può immaginare della creatività. Seppure l’intenzione originaria sia stata benevola e accogliente, quei laboratori sono diventati i luoghi del paternalismo infantilizzante, che finiscono per avere poco a che vedere con spazi per la creatività. Questo è l’equivoco che fa entrare l’arte nei manicomi. E poco cambia quando, come abbiamo detto, in questi luoghi entrano poeti, pittori, scultori, persone eccezionalmente dotate. Non mi emozionano particolarmente tutte le forme di arte che nel corso dell’Ottocento e del Novecento sono uscite dai manicomi. L’Art Brut, l’arte bandita, l’Outsider Art esposta in mostre, musei e collezioni mi rimanda sempre al tempo servo del manicomio, all’isolamento che gli internati vivevano, alla necessità che essi avevano di chiudersi nella loro malattia e di coltivarla. Solo per esempio posso ricordare Oreste Fernando Nannetti che a Volterra ha inciso sul muro del cortile del manicomio un graffito di 150 metri con la fibbia della sua cintura. Tutti hanno espresso stupore per quell’opera che è davvero gigantesca. Tutti hanno voluto leggere e interpretare simboli, segni e parole. Io di fronte a quel muro non riesco a pensare ad altro che a un uomo solo, chiuso nella sua malattia, lontano ormai da qualsiasi possibilità di incontro. Il muro come ultima spiaggia, ultima possibilità di conservare un brandello residuo di storia propria, di soggettività, di desiderio.
Questo è il retroterra da cui nasce Marco Cavallo, che della disperata ritualità di Nannetti è l’esatto opposto, simbolo di liberazione e di riconquista della propria identità.
Forse Marco Cavallo nasce nello stesso giorno dell’ingresso di Basaglia a Gorizia, nel novembre del 1961. Non ha mai visto un manicomio, ma ha letto molto di fenomenologia e ha cercato di cogliere il senso delle espressioni psicopatologiche. Si è addestrato a uno sguardo nuovo. In quel manicomio vede quanto gli altri non sono in grado di vedere. Non tanto le porte chiuse, i letti di contenzione, le chiavi, le divise, quanto l’assenza. Ci sono più di cinquecento internati ma non sono più visibili. Tutti appiattiti nella stessa identità, nello stesso processo di oggettivazione, vittime della stessa inesorabile sottrazione. Messa tra parentesi la malattia, riscoperta la presenza delle persone, Basaglia non può che aprire la porta. A Trieste tutto questo è già più chiaro e sta diventando possibilità per agire un tumultuoso cambiamento. Marco Cavallo nasce in questo tumulto e finirà per essere la storia stessa di quella liberazione.
Com’è nato il laboratorio da cui, sfondando fisicamente e simbolicamente porte e muri, uscì Marco Cavallo?
Era chiaro fin dai primi giorni che i laboratori, pur attivi all’Ospedale Psichiatrico San Giovanni di Trieste, non erano altro che momenti di intrattenimento e di infantilizzazione. Solo poche persone li frequentavano. Bisognava aprire e rendere questi luoghi fruibili a tutti. Nel primo reparto vuoto Basaglia propose allo drammaturgo Giuliano Scabia e all’artista Vittorio Basaglia di provare a riempirlo. Il cavallo che trasportava il carretto della biancheria in quei giorni stava per essere venduto, al suo posto un luccicante furgoncino. Nei primi momenti assembleari alcuni degenti che amavano quel cavallo, che in realtà amavano tutti in quanto presenza quotidiana e rassicurante, denunciarono il rischio di morte che correva Marco Cavallo. Nacque così la proposta di salvare il cavallo – che venne acquistato da un farmacista che lo portò in una fattoria in Friuli – e di costruire il grande cavallo azzurro. Il laboratorio era aperto dalla mattina alla sera e restò aperto per due mesi, fino a quando il cavallo, con un interminabile corteo di matti, uscì dal manicomio e attraversò la Piazza dell’Unità e le vie principali per arrivare alla Cattedrale di San Giusto. Marco Cavallo nasce da qui e, da quel momento, non ha mai smesso mai di correre, mentre il laboratorio chiuse, perché comprendemmo allora che i laboratori devono avere vita breve, il tempo per costruire e realizzare progetti di emancipazione, di liberazione e per assumere una dimensione dialettica, politica verso le cose. Marco Cavallo è un’azione politica. Dal momento stesso in cui “esce” diventa un’azione politica che denuncia la miseria del manicomio e la pesantezza del lavoro degli infermieri, che racconta, inesorabile, la verità. I laboratori dei manicomi, ma anche quelli che nascono numerosi intorno a improbabili progetti riabilitativi – senza nulla togliere a ogni forma espressiva e al valore d’uso che assume – non hanno senso se perdono di vista i processi di emancipazione, di crescita e di riacquisizione dei diritti delle persone.
Oggi quei muri che Marco Cavallo contribuì ad abbattere vengono in parte tenuti in piedi con un uso distorto delle diagnosi e della terapia, con la burocrazia, con la mancanza di rete e di assistenza ai malati e alle famiglie. Questi però sono muri invisibili e dunque molto più duri da tirare giù. Come se ne esce?
Quando sono caduti i muri, e c’è voluto tempo, la deistituzionalizzazione era appena cominciata ed è stato necessario progettare alternative forti e accoglienti nei territori. Nella mia esperienza ci sono il Centro di salute mentale 24 ore/7 giorni e la restituzione di cittadinanza, di dignità e di soggettività nel lavoro instancabile quotidiano. Caduti i muri, è stato possibile cominciare una conversazione e incontrarsi in luoghi mai immaginati prima. Intorno alla questione della salute mentale dobbiamo essere capaci di mettere in movimento risorse eterogenee che spesso hanno poco a che vedere col concetto che abbiamo di intervento sanitario. Rendere sempre più accessibile tutto ciò che costruisce la nostra forza di stare nel contratto sociale, dal vestire al mangiare e a tutto ciò che fa parte di una nostra buona vita. La festa, il falò, il teatro, il calcio, le vacanze, la borsa di lavoro, gli inserimenti lavorativi, la costituzione di cooperative, l’abitare insieme sono tutte azioni nate proprio a partire da quei momenti originari, in cui dovevamo immaginare come sfondare il muro di cinta per far uscire il grande cavallo azzurro. Abbiamo capito da quel momento che le attività, le piccole opere, il lavoro assumono una dimensione emancipativa solo se sono in grado di liberarsi progressivamente dalla dimensione segnatamente terapeutica e riabilitativa.
Oggi però, nonostante tutto, perdura con forza la tendenza alla categorizzazione che rimarca l’ipotetica differenza tra “artista matto” e “matto artista”. È come se fossimo ancora spaventati dall’eventualità che la barriera, per quanto sottile, tra un “noi” e un “loro” possa essere tolta, relegando così la persona, prima ancora che l’artista, nella categoria del “matto” da cui è poi molto difficile uscire.
Il problema non è definire qualcuno matto e qualcun altro sano. Il problema è cogliere la dimensione dolorosa, ruvida, dialettica, appassionata, bizzarra del nostro essere nel mondo. A quel punto non ha più senso dire che quell’artista è in manicomio. È come se stessimo dicendo – e questa forse non è una soluzione ma un’ipotesi di lavoro – che rompendo i muri del manicomio non si è negata questa condizione dell’esistenza, ma si è aperto un varco, si è creata una possibilità di circolazione tra un dentro e un fuori, che non è soltanto un dentro e un fuori da uno spazio istituzionale ma è anche una possibilità di un dentro e di un fuori del mio essere. Al contrario, tutto quello che noi facciamo per definire la malattia e, specularmente, per definire la salute, non fa che riaprire continuamente il fossato e sollevare il ponte levatoio, mantenere vive le categorie e separare il mondo in sani e malati. Allora posso capire che l’artista, che sia matto o no, assume immediatamente una funzione, un compito e una involontaria missione, che è quella di abitare in maniera ancora più esuberante e prepotente questa soglia, perché capace di tenere continuamente in comunicazione un dentro di noi e un fuori di noi. Il dentro del nostro spazio e il fuori della vastità del mondo. Queste riflessioni sono contenute in alcuni titoli della Collana 180 che dirigo: dal Marco Cavallo di Giuliano Scabia a L’istituzione inventata di Franco Rotelli al Non ho l’arma che uccide il leone, che ha accompagnato tutta la mia vita di lavoro.