L’epopea dei Lehman, dall’Ottocento al crollo dei giorni nostri, torna a Milano per la terza volta. Il cult di Massini, per la regia geniale di Luca Ronconi, non conosce sosta: ed è già tutto esaurito…
Sono passati due anni dal debutto nel gennaio 2015 dello spettacolo-fiume tratto dall’epopea di Stefano Massini e diretto dal genio Luca Ronconi, alla sua ultima regia. Per la terza volta Lehman Trilogy, dopo i recenti passaggi trionfali a Roma e Torino, rientra a Milano, dove tutto ha avuto origine. E noi ri-proponiamo le nostre riflessioni sulla “materia”…
UN MONDO NUOVO CHE ADORA IL DIO DOLLARO
Luca Ronconi ci ha abituato ad uno stile da maestro, fatto di una capacità di equilibrio, misura, esagerazione, meticolosa cura ed essenzialità, talvolta così scrupolosa e penetrante da mettere a dura prova le corde empatiche dello spettatore medio. In Lehman Trilogy la profondità interpretativa e l’essenzialità registica sono pienamente portate a compimento.
Non scoraggia il desiderio di trattare la vicenda dell’ascesa e della caduta di Lehman Brothers, il tema dell’economia, dei rapporti familiari e del cambiamento storico di una società. Non scoraggiano le 5 ore di uno spettacolo suddiviso in due parti per il pubblico meno teatrofilo, capace di catturare l’attenzione (forse con qualche licenza nella seconda parte) fino all’ultima ronconiana sillaba della recitazione di ognuno degli attori principali, impegnati in una maieutica lotta per servire il testo e il loro personaggio.
Anzi, la caratterizzazione dei protagonisti e delle loro vicende, ci catapulta subito nel mondo dell’autorevole “mente” Henry Lehman, (Massimo De Francovich), del determinato “braccio” Emanuel Lehman (Fabrizio Gifuni) e del diplomatico ma inaspettato Mayer “patata” Lehman (Massimo Popolizio), figli anch’essi di un sogno americano che li fa emigrare dalla Baviera per dirigere un’impresa tessile sempre aperta (tranne durante lo Shabbah) per poi trasformarsi in intermediari di cotone ed in seguito proprietari di una delle più grandi banche di investimento.
La vicenda di Lehman Brothers è l’evolversi e il mutare di una concezione generazionale che si ripercuote sulle decisioni dei figli Philip Lehman (Paolo Pierobon) di dedicarsi alla finanzia, di Herbert Lehman (Roberto Zibetti) di candidarsi in politica e di Robert Lehman (Fausto Cabra) di aprirsi ai settori dell’intrattenimento, generando una nuova concezione del marketing e ricoprendo lo sfortunato ruolo di ultimo discendente di un colosso frenetico.
Le vite di milioni di persone sono dipese dai rapporti parentali e dalle decisioni dei fratelli Lehman: la guerra di Secessione, le ricerche sulla Bomba Atomica, la diffusione dei computer, il consumismo come forma d’essere, l’abbandono dell’economia reale in favore della finanza. Destini incrociati che hanno segnato l’ascesa e la caduta di una banca e l’ascesa e la caduta di una famiglia, segnata da tradizioni e sogni, nevrosi ossessive, calcolo e intuizione. Ronconi ne fa uno spettacolo nudo ed lineare, assumendosi i rischi di una regia che non chiede aiuto a musiche, scenografie roboanti o invenzioni luminose, pura e sintetica come un piano cartesiano, arricchito dall’oscillare delle variazioni umane dei personaggi, calibrate alla perfezione nei loro dettagli.
Il peso è tutto spostato sugli attori che pagano il pegno interpretando ottimamente i “vizi” di famiglia: De Francovich appare come l’intelligente autoritaria e risoluta guida, Gifuni mostra i lati del fratello determinato ma eccessivamente istintivo, Popolizio svela le qualità nascoste del parente inascoltato, Pierobon l’animo maniacale, calcolatore, statistico, Zibetti lo spirito polemico e in controtendenza, affiancati da una Francesca Ciocchetti che plasma tutte le parti femminili. A Cabra il compito di incarnare il giovane Lehman, costretto dal peso ossessivo del proprio nome, portato come baluardo e fardello fino all’ultimo e definitivo crollo sotto la guida dei nuovi amministratori.
L’impegno e la bravura di tutto il cast, tra cui determinano un’opera tra le più interessanti della carriera di Luca Ronconi, specchio misurato ed attento di dinamiche umane e contemporanee non ancora estinte. Chissà se e con che spirito qualche spettatore italiano si sentirà parte o vittima della famiglia Lehman.
ESSERE O NON ESSERE YIDDISH?
Meryl Streep vestita da rabbino. Da anni quando penso agli ebrei americani mi viene in mente la scena iniziale della miniserie tratta da Angels in America di Tony Kushner. La Streep, qui barbuta, celebra il funerale di un’anziana ebrea, ed elencando i nomi di figli e nipoti si accorge che col passare delle generazioni i biblici Rachel e Abraham sono diventati Max, Mark o Lisa.
Trasformazioni e compromessi si osservano anche nella Lehman Trilogy di Stefano Massini. Heyum Lehmann, «ebreo circonciso», ashkenazita, bavarese e primo della sua famiglia a sbarcare a New York nel 1844, con sensibile intuizione da migrante diventa immediatamente Henry Lehman. Metamorfosi del nome yiddish e amputazione della doppia finale sono un tempestivo adattamento all’impaziente pragmatismo americano, che non ha il tempo per ripetere pleonasticamente le stesse consonanti.
Le tradizioni erano importanti per i tre fratelli Lehman: l’Hanukkah, la preghiera, la Shivà e tutte le possibili ripetizioni in Alabama delle abitudini di Rimpar, Baviera. Ma col passare dei decenni si perde il senso di questi riti, soverchiati da modernità, mode e nuovi idoli; riti persino ridicolizzati dal disegno di un bambino – Robert, l’ultimo Lehman -, rimasto perplesso davanti alle tradizionali barbe lunghe funebri.
E anni dopo, quando sarà suo padre a morire, dopo la pace del ’45, non farà nemmeno chiudere l’azienda: non ci si può fermare perché c’è il mondo da ricostruire, «e poi chissà se Rimpar-Baviera dopo la fine di Hitler sta ancora in piedi o l’hanno rasa al suolo». Spazzato via anche geograficamente, il passato sembra non possa più sorreggere l’ebraismo delle origini: ma è tutto da vedere.
Massini evita il moralismo decadente del fallimento che segue l’abbandono delle origini. Anzi termina il suo testo ben prima del decennio della bancarotta – il riferimento viene inserito soltanto nell’epilogo. Il nucleo del dramma sta piuttosto nel trasferimento dei rituali dal Tempio a Wall Street, luogo sacro al servizio di entità metafisiche forse anche più suscettibili del dio della Torah.
Eppure, anche quando le preghiere sono sostituite dagli indici di borsa, tutti i fantasmi dei vecchi Lehman restano sempre presenti in scena: testimoni per nulla silenziosi della discendenza che hanno prodotto. Massini e Ronconi colpiscono così il cuore dell’ebraismo: l’idea di un territorio che, come dice Hannah Arendt, «non si riferisce tanto a un pezzo di terra, quanto allo spazio che c’è tra individui che formano un gruppo».
E basta un solo Baruch HaShem! per rifondare Rimpar in Alabama, o come in Giobbe di Roth – quello austriaco – per ritrovare il proprio figlio, famiglia ed essenza persino al di là dell’oceano e riposarsi finalmente «dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli».