In Palazzo Reale, la grande antologica sul padre della Metafisica. Ecco cosa ne pensiamo, mettendo qualche puntino sulle i.
Palazzo Reale prosegue con il programma di approfondimento sui grandi Maestri del ‘900 e questa volta punta su De Chirico.
Lo fa in grande, presentando oltre 100 opere del famoso artista, che il curatore Luca Massimo Barbero ha doviziosamente selezionato fra le più prestigiose collezioni del mondo, fra Milano, Roma, Venezia, Parigi, Londra, New York, Houston e San Paolo.
La mostra è articolata come un’antologica e dunque non segue necessariamente un filo cronologico, bensì snoda le opere per accostamenti e tematiche, che vanno a costruire come un puzzle il percorso artistico di De Chirico.
L’iniziale corridoio di accesso alla mostra, in maniera un po’ impattante ma necessaria, declina la vita dell’Artista punto per punto con una sintetica cronistoria e l’audioguida mette subito le cose in chiaro: la mostra non seguirà un riferimento cronologico.
Ci si immerge però subito nelle radici: i genitori e la Grecia.
La terra natia, rappresentata attraverso la mitologia greca, acquista il sapore di allegoria, esattamente come si usava nell’arte rinascimentale. La figura del padre, venuto a mancare prematuramente e la statuaria e vigorosa tempra della madre, creano un filo drammatico di tensione e inquietudine, di ricerca di significati oltre al visibile, che caratterizzerà tutto il percorso. Il curatore Luca Massimo Barbero evidenzia inoltre sin da subito la strettissima relazione fra De Chirico e la filosofia di Nietzsche, le cui letture influenzano gli autoritratti e la composizione dei paesaggi metafisici.
L’enigma
“Il vero realismo consiste nel rappresentare le cose sorprendenti nascoste sotto il velo dell’abitudine e che non sappiamo più vedere”. Così scriveva Jean Cocteau e la citazione si sposa in pieno con il fulcro nodale dell’estetica di De Chirico: la visione, il mistero, l’inganno.
L’enigma è davanti ai nostri occhi, palesato più che nascosto, ma non sappiamo coglierlo sulle prime. Le opere si strutturano come dei rebus da sciogliere e decifrare.
Giorgio De Chirico gioca con la Storia dell’Arte e spazia fra le epoche e i luoghi in cui vive: riprende citazioni giottesche nelle architetture e negli intimi interni ferraresi, recupera l’età classica nell’evocazione della Patria, le avanguardie nella scomposizione della forma, attraverso un processo intrinseco e non esteriore.
Guarda le cose note, banali, quotidiane in modo libero, svincolato dalla sequenza logica dei rapporti oggettivi ed è qui la sua vera forza: osservare il mondo come se fosse la prima volta.
Lo si coglie perfettamente nella sezione dedicata ai Bagni Misteriosi, in cui immagina che il pavimento di legno lucido si decostruisca in modo fluido e diventi un mare in cui sprofondare, su cui nuotare. Ogni cosa perde logica e ne acquista una propria di un mondo parallelo, incongruo e denso di rimandi con l’onirico e l’introspezione.
I manichini e le statue
Cosa c’è di più posticcio di un manichino puntellato su strumenti di misura?
E cosa c’è di più solido di una statua?
Queste due figure così antitetiche sono riferimenti costanti nella pittura dechirichiana.
Entrambe senza apparente anima, sono invece figure così umane e complesse. Dopotutto, chi non è mai stato precario e chi non è mai stato presenza? Queste due condizioni metaforiche, metafisiche, si incontrano persino in un abbraccio, quello del Figliol prodigo, in cui la carica emotiva è straziante, poetica, nostalgica. Si coglie in pieno la figura del padre scomparso e la necessità di abbracciare le proprie radici. Noi, giovani e dinoccolati, manichini di sovrastrutture che potrebbero cadere da un istante all’altro, noi cerchiamo l’abbraccio dell’eterno, delle origini, come De Chirico cercava il padre.
Le dimensioni si affastellano e disincantano, l’inganno diventa via via sempre più palese.
L’ironia del pittore è tattile e raggiunge l’apice negli autoritratti nudi o da travestimento.
La messa in scena è ostentata nella serie dei gladiatori, che come fantocci inebetiti interpretano il ruolo di loro stessi svogliatamente.
La Stimmung, la base necessaria alla creazione dell’enigma, accompagna le opere nelle sale e culmina nell’ultima, in cui la serie “Muse inquietanti” ritorna alle costruzioni prospettiche, alle architetture dai silenzi assordanti, statici, ai meriggi eterni di un’atemporalità in cui tutto non accade, accadendo.
L’allestimento è eseguito su progetto di Giovanni Maria Filindeu. Per chi non è addetto ai lavori si tratta di una scelta colta e raffinata. Il concept di Filindeu è il bianco, la purezza, l’intersezione con gli spazi. Simpatica la firma stilistica dei pannelli fessurati, che lasciano intravedere i visitatori delle altre sale e giocano con l’ambiente.
Gli ambienti si susseguono senza soluzione di continuità, in un asettico e luminoso bianco ghiaccio. Praticamente assenti le sedute. Sotto al profilo museologico, risulta percettivamente un po’ stancante, l’occhio cerca un riposo dalle sale bianche, che trova soltanto al bookshop.
La mostra potrebbe rivelare dunque una debolezza, che risiede forse proprio nella sua forza: per quanto profondamente colta e corposa, rimane forse poco accessibile per chi non è già avvezzo all’arte e alla Metafisica. Le parole sui prespaziati esplicativi (alcuni nella sala introduttiva attaccati un po’ frettolosamente) evidenziano un italiano forbito, che resta più caro ai testi dei libri che al quotidiano utilizzo.
La consecutio pittorica, strutturata per accostamenti, potrebbe creare spaesamento cronistorico per chi è alle prime armi con la scoperta del grande Artista.
Un consiglio: guardatevi qualche quadro di Böcklin prima di vedere la mostra, poiché ne è piena di rimandi nelle prime sale e googlate cosa significa Metafisica perché, benché lo si respiri in tutte le opere, rimane purtroppo implicito e non didatticamente ben esplicitato.
Piccola critica al font: va bene giocare con il nostro cervello, che leggerà sempre De Chirico, ma c’era veramente bisogno di sottrarre la i e lasciare solo il puntino sulla r, come a formare una una dieresi? L’enigma e la metafisica forse perdoneranno questa curiosa domanda, che ho raccolto a più voci durante la visita.
Senza dubbio rimane una mostra molto importante per Milano e certamente da vedere, ma alla luce di alcune accortezze, non ultimo il costo più che giusto, ma non popolare, del biglietto, varrebbe forse la pena ricordare che le mostre sono per tutti. Non solo di tutti.
De Chirico, a cura di Luca Massimo Barbero, Milano, Palazzo Reale, fino al 19 gennaio 2020.
Immagine di copertina: Giorgio de Chirico, L’enigma di una giornata, 1914, Olio su tela, Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo, Brazil