Anniversario imperfetto (è uscito cinquantun anni fa) di uno dei dischi perfetti della stagione “peace & love”. Motivo e splendida giustificazione: l’uscita della 50th Anniversary Deluxe Edition dell’album firmato da Crosby Stills Nash & Young. Quattro cd e 48 brani. Inizialmente le canzoni erano dieci, vendettero due milioni di copie in prevendita e 15 milioni nel corso degli anni. Una favola. Ma come tutte le favole con qualche risvolto nero dietro le quinte
Dal tumulto e dal conflitto nascono a volte le cose migliori. È così senz’altro per Deja vu, disco perfetto e perfetto manifesto riepilogativo della stagione “peace & love”, che viene pubblicato l’11 marzo 1970 a nome Crosby Stills Nash & Young. Se ne parliamo oggi, nell’anniversario imperfetto dei cinquantun anni, è perché soltanto adesso, forse per evitare di finire nel calderone delle numerose riedizioni vitaminizzate di altrettanti capolavori del 1970, la Rhino ha dato il via libera al box set Deja vu – 50th Anniversary Deluxe Edition, curato da Graham Nash. Quattro cd e 48 brani (nell’album originario, che scalò rapidamente le classifiche con due milioni di copie piazzate soltanto in prevendita e 15 milioni di copie vendute nel corso del tempo, le canzoni erano dieci), con un cd di demo, uno di outtakes, uno di alternate takes, e numerose perle di cui si favoleggiava da tempo aggiunti al manufatto originale.
Ma andiamo con ordine, per raccontare una storia di individualisti poco addomesticabili alle ragioni del gruppo, di amicizie e bruschi voltafaccia, perché Crosby Stills Nash & Young, già agli inizi della breve e favolosa avventura, litigano fra loro come e più dei Beatles nella loro fase terminale. E incidono spesso separati, con il capocantiere Stills a rifinire il lavoro con migliaia di ore di sovraincisioni, come avevano fatto i Beatles per il White album. Sarà una coincidenza, ma i Fab Four si sciolgono proprio quando i “quattro californiani” che poi californiani sono soltanto in minima parte (il losangelino David Crosby: Stephen Stills è texano, Graham Nash inglese e Neil Young canadese) danno alle stampe il loro capolavoro che amalgama con apparente naturalezza sognanti tintinnii westcoastiani e furibonde galoppate elettriche.
Dunque, all’origine i quattro fanno storia a sé. David Crosby, che compirà ottant’anni il prossimo agosto, è nei Byrds che si impongono con l’epocale versione della dylaniana Mr. Tambourine man. Contribuisce soprattutto agli album psichedelici del gruppo, con canzoni che restano (Eight miles high, Everybody’s been burned) ma nel 1967, alla vigilia della loro svolta country-rock, li abbandona, stufo dei dissapori al loro interno. Ha lasciato gli Hollies, gruppo di punta del beat inglese, il chitarrista Graham Nash, classe 1942, autore della gran parte dei brani della band (almeno Bus stop e Stop stop stop, che mi piacevano molto quand’ero ragazzino, vanno ricordati) ma mai cantante. È orfano dei Buffalo Springfield, gruppo fra i maggiori del folk-rock californiano, lo strepitoso chitarrista Stephen Stills, classe 1945 come Neil Young: la sua For what it’s worth, sugli scontri fra polizia e hippies sulla Sunset Strip di Los Angeles, è fra gli inni di quegli anni.
E poi c’è Neil Young, canadese di Toronto che si è naturalizzato americano soltanto nel 2020. In California c’è arrivato nel 1966 in modo quanto mai avventuroso. Come racconta lui: “Me ne andai da Toronto assieme a Bruce Palmer. Avevamo un carro funebre nero Pontiac del 1953. Guidammo fino a Los Angeles perché era lì che c’era il sole. Non avevo mai pensato di andare da nessun’altra parte. Avevo una chitarra e un dollaro in tasca. Non so come ce l’abbia fatta, allora non sapevo come mi sarei guadagnato da vivere”. Mentre gironzola per Los Angeles con l’amico, incontra Stephen Stills e Richie Furay, che avevano già conosciuto in Canada. I due si ricordano del carro funebre con la targa Ontario, “ci fermarono e fui felicissimo di incontrare qualcuno che conoscevo. Ci sembrò una cosa assolutamente logica formare una band”. I Buffallo Springfield appunto, che dureranno lo spazio di tre anni e due dischi, dilaniati dalla rivalità fra Stills e Young, fratelli coltelli.
Nel 1969 quegli individualisti a pascolo brado sentono il bisogno di fare gruppo. Cominciano Stills e Crosby, si aggrega presto a loro Graham Nash. L’album di esordio per la Atlantic, Crosby Stills & Nash (gli appassionati lo chiamano “The couch album” perché i tre sono seduti su un divano di cuoio, all’ombra di una veranda) staziona a lungo nelle zone alte della classifica, con canzoni che diventano presto classici: Suite: Judy blue eyes, Marrakesh Express, Wooden ships e Helplessly hoping.
C’è il problema di eseguire il repertorio in concerto, e Stills propone Neil Young: assieme sono un duo chitarristico di forte impatto, il sound d’assieme del trio ne uscirebbe irrobustito. All’inizio Young dovrebbe essere un ospite di lusso, un “mercenario”. Il canadese accetta ma vuole il nome in ditta o non se ne fa niente, e i tre dicono di sì. Da quel momento in avanti il suono, è vero, diventa più grintoso ma la gestione si complica: Young impone un bassista di fiducia, il giovanissimo nero Greg Reeves (l’altro musicista aggiunto è il batterista Dallas Taylor, lui e Reeves avranno i nomi in piccolo nell’insegna della ditta allargata, come nei titoli di testa dei film). E riprende lo scontro con Stills. Li guidano due concezioni diametralmente opposte del fare musica: fautore della presa diretta, di un suono grezzo e sporco Young. Pignolo e perfezionista al limite del maniacale Stills, che sovrintende al risultato finale e lo cesella a furia di incisioni supplementari. I quattro sono poi autori, e gelosi di quel che compongono: spesso così finiscono per trovarsi in sala di registrazione (come faranno in futuro dal vivo e su disco) in piccoli ensemble a geometria variabile: Crosby con Stills, Stills con Nash, Nash con Crosby, Young con Stills, quando non registrano da soli. Rari i momenti collettivi, con il pazientissimo Stulls a rifinire il tutto.
Attraversano anche un periodo sentimentale complicato o doloroso, i quattro: il primo matrimonio di Neil Young scricchiola, Stills ha terminato la sua storia con Judy Collins, Nash quella con Joni Mitchell, Crosby è sconvolto perché la sua fidanzata Christine Hinton è morta in un incidente d’auto. Le droghe circolano libere e avranno effetti pesanti sulla psiche e sul fisico dei musicisti (a David Crosby, qualche anno dopo, verrà trapiantato il fegato). Dal vivo però fanno scintille: esordiscono a Chicago nella primavera del 1969 e il 18 agosto alle tre di notte, in un set infuocato nell’epocale festival di Woodstock, davanti a un pubblico di mezzo milione di persone, attaccano da debuttanti e terminano da rockstar. Confermeranno le attese negli altri concerti in giro per gli States: il doppio Four Way Street, tra i più bei live della storia del rock, pubblicato nel 1971, è la testimonianza esemplare di quello smagliante stato di grazia.
Anche l’album Deja vu riceve accoglienze trionfali: è primo in classifica negli Stati Uniti, in Australia e in Olanda, quinto in Inghilterra. Sembra tutto facile, naturale, levigato, tutto gioco di prima, pochi anche fra i critici avvertono le tensioni fra i quattro e l’opera di montaggio. Al punto che Rolling Stone – la rivista si ricrederà nel tempo, mettendolo al 148° posto fra i più grandi album di tutti i tempi – scrive: “Le performance dal vivo del gruppo suggerivano che la voce, la chitarra, le canzoni e la presenza scenica di Young avrebbero aggiunto elementi di oscurità e mistero a canzoni che precedentemente erano un concentrato di dolcezza saccarinica. Sfortunatamente poca di questa influenza è convogliata nelle sedute di registrazione di Deja vu. Nonostante il formidabile lavoro di Young in molte canzoni, il suono di base non è cambiato molto. Il tutto risulta ancora troppo dolce, troppo calmo, troppo perfetto e troppo bello per essere vero”.
Abbagli critici. In realtà Young suona in cinque delle dieci canzoni e i brani che porta in dote, a parte la tenue e bellissima Helpless (la pretenziosa Country girl e l’insipidina Everybody I love you scritta a quattro mano con Stills) non sono i meglio fichi del bigoncio. Le cose grandi di Deja vu sono le impennate furibonde di Crosby nella ruvida Almost cut my hear (da ascoltare anche, per me superiore alla versione ufficiale, quella nel quarto cd del box set):
A momenti mi tagliavo i capelli!
È successo proprio l’altro giorno…
Stanno diventando un po’ lunghi…
Avrei potuto dire che erano alla mia maniera,
ma non lo feci, e mi chiedo perché.
Mi sento come se lasciassi sventolare la mia bandiera freak….
Sì, è come se lo dovessi a qualcuno!
Deve essere perché ho avuto l’influenza a Natale
Se non mi sento in forma…
Questo aumenta la mia paranoia
come guardare nello specchietto retrovisore e vedere un’auto della polizia!
Ma non sto concedendo un millimetro alla paura,
perché, quest’anno, me lo sono ripromesso.
Mi sento come se lo dovessi a qualcuno!
Ma quando alla fine mi sarò rimesso in sesto,
tornerò in quel clima meridionale e solare
e troverò un posto dentro a un sorriso.
Separare il grano dal loglio…
Mi sento come se lo dovessi a qualcuno!
Crosby i capelli non se li è tagliati neppure adesso, in piena vecchiaia. Sempre sua è anche la meditativa, “orientale” e musicalmente acrobatica Deja vu:
Se mai fossi già stato qui prima, probabilmente saprei proprio cosa fare, non credete?
Se fossi mai stato qui prima in un altro punto della ruota del tempo, probabilmente saprei come rapportarmi con tutti voi.
E mi sento come se fossi già stato qui prima
Mi sento come se fossi già stato qui prima
E sapete, ciò mi fa davvero chiedere
Cosa sta succedendo sotto i nostri piedi
Lo sapete?
Non ve lo chiedete?
Cosa sta succedendo giù, sotto i vostri piedi?
Tutti noi siamo già stati qui prima.
Stephen Stills non è da meno. Soprattutto nella magnifica Carry on che apre l’album, in prodigioso equilibrio tra ottimismo e nostalgia, tra dolcezze vocali e pulsante energia chitarristica:
Prosegui
L’amore è in arrivo
L’amore è in arrivo per tutti noi
E nella solistica e cupa 4 + 20, bilancio esistenziale della povertà dei genitori e di un altro tipo di povertà – la solitudine – che affligge lui.
Il pezzo forse più bello dell’album, Teach your children, vero manifesto dell’epoca, arriva dall’inglese Graham Nash e l’intervento alla pedal steel guitar di Jerry Garcia dei Grateful Dead lo fa volare:
Tu che sei sulla strada
devi avere un codice che regoli la tua vita
e, così, diventa te stesso
perché il passato non è che un addio.
Insegna bene ai tuoi figli,
l’inferno dei loro padri è svanito lentamente
e nutrili dei tuoi sogni,
l’unica cosa da raccogliere, l’unica cosa da apprendere.
Non chieder neanche loro perché. Piangeresti se te lo dicessero.
E allora guardali e basta, e sospira,
e sappi che loro ti amano.
E tu, di tenera età,
non puoi sapere delle paure in cui sono cresciuti i tuoi genitori.
E allora, ti prego, aiutali con la tua giovinezza,
loro cercano la verità prima di morire.
Insegna bene ai tuoi genitori,
l’inferno dei loro figli svanirà lentamente,
e nutrili dei tuoi sogni,
l’unica cosa da raccogliere, l’unica cosa da apprendere.
Non chieder neanche loro perché. Piangeresti se te lo dicessero.
E allora guardali e basta, e sospira, e sappi che loro ti amano.
È di Nash anche un tenerissimo quadro familare, la beatlesiana Our house con fiori nel vaso, gatti che scorrazzano liberi e il fuoco che scoppietta. È il frutto felice del sodalizio con Joni Mitchell, che presto avrà termine, e nel cd dei demos i due suonano e cantono assieme e Joni scoppia a ridere, il riso squillante e contagioso della giovinezza, quando Nash stecca ed esclama stizzito: “Shit!”…
Di Joni è anche l’unico brano per così dire “esterno” di Deja vu, la trasognata Woodstock – per fare un confronto ascoltatela eseguita dall’autrice in Ladies of the canyon – che la voce e l’arrangiamento di Stephen Stills caricano di irruenza:
Mi sono imbattuta in un figlio di Dio
che stava camminando lungo la strada
e gli ho chiesto: – Dove stai andando?
E lui mi ha risposto:
“Sto andando giù alla fattoria di Yasgur,
a unirmi a una rock and roll band,
ad accamparmi all’aperto, sulla terra,
a cercare di liberare la mia anima”.
Siamo polvere di stelle,
siamo d’oro.
E abbiamo dovuto fare in modo
di tornare al giardino.
”Allora posso camminare accanto a te?
Sono venuta qui a liberarmi dallo smog
e mi sento un ingranaggio in qualcosa che gira…
E forse è il periodo dell’anno,
o forse è il tempo dell’uomo.
Io non so chi sono, ma, lo sai,
la vita serve per imparare”.
Siamo polvere di stelle,
siamo d’oro.
E dobbiamo cercare
di tornare al giardino.
Appena siamo arrivati a Woodstock,
eravamo addirittura mezzo milione
e ovunque era canto e celebrazione.
E sognavo di vedere i bombardieri
sganciare bombe nel cielo
che si trasformavano in farfalle
sopra la nostra nazione.
Siamo polvere di stelle,
siamo d’oro,
e dobbiamo cercare
di tornare al giardino.
Breve, dopo Deja vu, la vita felice del supergruppo che aveva portato a sintesi perfetta la vibrante stagione alternativa delle tribù giovani d’America. Già nel 1970 Neil Young scappa per incidere, con i suoi Crazy Horse, After the gold rush. Seguiranno, negli anni, dischi del trio originario, rari incontri live e due album non memorabili del quartetto, fatti gli uni e gli altri più per passare alla cassa che per passare alla storia. Sino all’epitaffio crudele di Young: “La cocaina e l’ego hanno distrutto Crosby Stills Nash & Young”.
Immagine di copertina: Photo of Crosby, Stills, Nash & Young in 1970, author CMA-Creative Management Associates/Atlantic Records