Il Davaï Théâtre è una compagnia teatrale itinerante, uno stravagante gruppo di artisti che gira la Francia affamato di vita e di cibo, di amicizia e d’amore. L’ottima regista francese Léa Fehner, al secondo film, racconta quell’esperienza aprendo il set e la scena a figlio, padre, madre, sorella e nipoti. Ne esce una storia tutta corale dove la malinconia dell’esistenza si mescola sempre alla gioia di ridere. E nessuno spettacolo si ripete mai uguale: perché sempre irrompe, imprevedibile, la realtà
Les Ogres di Léa Fehner racconta le vicissitudini del Davaï Théâtre, una compagnia teatrale itinerante, un singolare e stravagante gruppo di artisti che viaggia in giro per la Francia mettendo in scena Cechov. Come degli Orchi, i protagonisti del film divorano e “aggrediscono” il pubblico, hanno fame di vita e di cibo, di amicizia e d’amore: sono eccentrici, esuberanti nella vita come nella scena e non hanno paura di essere trasgressivi, né di pagarne le conseguenze. Esseri singolari e unici, risultano “mostruosi” per la loro bravura e il modo in cui affrontano la vita e il palcoscenico, ma ne vediamo anche gli aspetti più duri ed irriverenti, le difficoltà e i limiti.
Al loro pubblico, sotto il tendone e in sala, raccontano di due amanti, di un matrimonio dove la sposa è in dolce attesa, di un acrobata che per sfuggire al suo spasimante si arrampica tra i rami di una scenografia stravagante e colorata; un Cechov fatto di scherzi, vaudeville perfetti e meccanismi comici divertenti. E ogni volta che lo spettacolo va in scena, accade sempre qualcosa di realmente vero, che non era previsto dal copione; la vita puntualmente irrompe, disarma la finzione e non bastano più canzoncine o danze acrobatiche a intrattenere il pubblico. Gli artisti abbandonano le maschere comiche e si chiude il tendone.
Lo spettatore sviluppa un senso di attrazione e repulsione nei confronti di questi “orchi” così affascinanti e insieme spaventosi, spudoratamente provocatori. Niente sembra fermarli né stancarli: e il loro mondo, nonostante le stranezze, ha un equilibrio, un ordine interiore dove ognuno ha il suo ruolo e la sua roulotte, finché il ritorno di un ex amante e l’imminente arrivo di un bambino riaprono ferite che sembravano rimarginate, destabilizzando il gruppo nei suoi legami.
Diretto magistralmente in un turbinio senza tempi morti, in scena e sullo schermo, con la cinepresa che danza avvinghiata in un tutt’uno coi personaggi, dando a ciascuno dei suoi numerosi interpreti un’identità che lo caratterizza, Les Ogres avvolge il pubblico e lo coinvolge nello spettacolo in un girotondo di parole, note ed emozioni. A tratti la scena sembra addirittura satura e lo spettatore è travolto da un sovraccarico sensoriale (musica, battute, doppi sensi, pantomime, metafore, fiumi di alcool e continui cambi di sontuosi abiti di scena), tanto che la visione risulta quasi disturbata da tutto quel frastuono. Attraverso il teatro, Léa Fehner racconta e osserva l’essere umano nudo e crudo, nella sua natura più recondita fatta di desideri, paure e debolezze. Tra entusiasmi e smarrimenti, il film mette in scena lo spettacolo della vita, mentre il Davaï Théâtre continua a recitare, anche se le casse sono perennemente vuote. E si continua a vivere anche mischiando gli antidepressivi e mettendo all’asta il proprio corpo.
Un aspetto molto interessante è la volontà della regista di costruire e raccontare una storia corale, abbandonando quella gerarchia di ruoli cui il cinema è solito rifarsi. Singolare, a questo proposito, è una delle scene finali in cui Mona, interpretata da una magnetica Adèle Haenel, ha appena partorito. Il resto della compagnia è lì ad aspettare, e quando l’infermiera li raggiunge per comunicare la lieta notizia al padre, tutto il gruppo, senza essere stato interpellato, si sente autorizzato a entrare nella stanza per vedere il bambino, in luogo di amici, parenti, madri e padri, sorelle e fratelli. Grande merito dunque a Les Ogres per la sua capacità di raccontare una storia di tanti senza tralasciare alcun particolare o far prevalere un personaggio rispetto agli altri, attraverso un intreccio narrativo in cui si mescolano elementi di comicità, dramma e tragedia, in un continuum tra clown e pierrot, sorrisi e lacrime, addii e ritorni.
Miglior film al Festival di Cabourg, vincitore del premio del pubblico a Rotterdam e a Pesaro, dov’è stato premiato anche dalla critica, Les Ogres sviluppa e soddisfa un appetito per la vita rumoroso e totalizzante. La seconda pellicola della giovane regista francese è un omaggio all’individuo e alla scena itinerante, a quell’esperienza che Léa Fehner ha condiviso coi suoi familiari, nella vita e sul set (il figlio, il padre, la madre, la sorella e i nipoti fanno parte del cast), a quel luogo sospeso tra due dimensioni, il reale e la finzione, dove l’individuo, con innocenza e consapevolezza, rivela se stesso. Finito un altro spettacolo, smontato il tendone, gli Orchi del Davaï Théâtre si rimettono in viaggio per un’altra tappa, per un altro pubblico, per un altro Checov: per raccontare ancora la malinconia dell’esistenza, insieme, però, alla giocosa volontà di ridere.
Les Ogres di Léa Fehner con Adéle Haenel, Marc Barbé, François Fehner, Marion Bouvarel, Inès Fehner, Lola Dueñas